«Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo e della cultura e a viva voce chiediamo che non vengano chiusi cinema e teatri, presidi, in cui sono garantite tutte le norme di sicurezza igienico sanitarie, dal tracciamento dei posti alla sanificazione, al controllo della temperatura e all’uso della mascherina obbligatoria. Poniamo queste condizioni al di là di tutte le valutazioni e le implicazioni che questa ulteriore serrata comporta per tutto il settore e per il significato e il valore che la cultura deve avere nel nostro Paese».

COSÌ, mentre il ministro Franceschini ha definito «un dolore la chiusura di cinema e teatri» come se non fosse stato lui uno dei promotori dell’iniziativa, un gruppo di persone la cui attività ruota attorno al cinema Anteo di Milano ha deciso di scrivere a lui e al Primo Ministro le poche righe riportate qui sopra, chiedendo a chi opera nell’ambito dello spettacolo di sottoscriverle. In meno di 24 ore oltre 12 mila tra registi, attori, esercenti, tecnici, uffici stampa, lavoratori dello spettacolo in genere, giornalisti del settore e spettatori lo hanno fatto.

RIBADENDO che pare sempre un po’ corporativo difendere ogni singola attività che subisce limitazioni governative causa Covid, questo non vale per il provvedimento che ha chiuso cinema e teatri. Non solo perché micidiale per il settore (e questo vale anche per altri), ma perché scriteriato visto che tutte le rigide norme di prevenzione sono state ampiamente garantite, oltre al fatto che purtroppo di questi tempi non sono molti quelli che puntano su teatri e cinema per uscire di casa. Sarebbe bastata solo una maggiore attenzione ai dati. Ma non lo si può pretendere da chi, al comando, ha solo sperato nello stellone italico per quattro mesi senza pensare a come affrontare seriamente la seconda ondata. Tra le migliaia di firmatari della petizione Giovanni Storti che dice «cinema e teatri sono tra i luoghi più sicuri dopo le traversate transoceaniche in solitaria e i santoni nella grotta, e sono gli unici posti che ci fanno veramente sognare. Come si fa a chiudere i posti che ci fanno sognare? Ripensateci, sono posti che alzano il livello dell’anima».

ALTRO firmatario Gianni Canova che afferma «siamo all’atrofia dell’immaginazione. Di fronte a un problema complesso continuiamo a dare risposte semplici a tutti. Perché non si elabora, per esempio perché non fare aprire la domenica…». Per Piera Detassis «si doveva maggiormente lavorare sulla diversificazione di orari etc. Comprendo e temo la pandemia e va rispettata la paura come i provvedimenti, ma questa sorta di rivolta almeno è servita a mettere in primo piano il cinema il teatro, lo spettacolo come un bene primario, ci ha fatto capire meglio che si tratta di qualcosa che serve. Tra l’altro questa volta è una categoria fatta non solo di nomi famosi. Il Covid mi fa paura, ma mi fa paura anche il deserto culturale». Detassis cita anche l’unione nazionale di interpreti dell’audiovisivo, teatro e spettacoli dal vivo (Unita) che a sua volta ha inviato un messaggio per protestare contro la chiusura affermando «non siamo solo tempo libero, siamo lavoro e molto di più».
Così, mentre le pratiche religiose potranno continuare, le pratiche laiche non meno spirituali, culturali e mentali vengono invece destinate al silenzio barricandosi con pigrizia ideologica dietro l’alibi della salute da preservare. Per dirla con una frase di Eugene Ionesco maestro del teatro dell’assurdo (talvolta attribuita a Woody Allen), «Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene». Ma non si tratta di effetto Coronavirus bensì di effetto Dpcm con avallo del ministro Franceschini.