«Questo film per me è un opera di memoria quanto Roma lo è stato per Alfonso Cuáron», dice Quentin Tarantino della sua nona opera. Ma se il regista messicano ha ricostruito minutamente la casa della propria infanzia e scavato la propria archeologia nel vecchio quartiere, da C’era una volta a Hollywood si deduce che per Tarantino la casa d’infanzia era il cinema e prima ancora le fiction della vecchia tv in bianco e nero. Il film è ambientato in un momento cruciale del cinema e della città, quando lo zeitgeist culturale degli anni sessanta irrompe nella fabbrica dei sogni cambiandola per sempre. Nel 1969, quando, spiega il regista, la New Hollywood aveva già vinto ma non sapeva ancora di averlo fatto e la Old Hollywood ormai già del tutto anacronistica rispetto ai tempi, non lo aveva ancora capito.

Molti hanno già descritto il film come una lettera d’amore per Hollywood: hanno ragione?

Beh, un po’ si. Sia nell’eufemismo prevalente per cui si intende il cinema ma in questo caso anche il luogo fisico, il quartiere nella contea di Los Angeles. Io abitavo qui nel 1969, avevo 6-7 anni e ricordo tutto molto, molto bene: i programmi alla tv, le radio locali, gli show per ragazzi del sabato mattina, la musica …la radio dell’epoca percorre tutto questo film e la voce di quei dj è quasi voce narrante. Credo di essere vecchio abbastanza per ricordare i dettagli ma non troppo vecchio per ricreali in un film vitale (ride, ndr)

C’entra la nostalgia?

Non credo. Non si tratta di voler tornare a quell’epoca. Fu una stagione breve ed affascinante in cui a Hollywood è cambiato tutto e mi interessava anche «antropologicamente». Come racconta Mark Harris nel suo «Pictures of the Revolution» si passò in un paio di anni da Mary Poppins al Laureato e Bonnie and Clyde. Quei film sono del 1967 e ora del 1969 era chiaro che questa era la nuova Hollywood. Istantaneamente qualunque film fatto con la mentalità da 1965 o 1966 apparì disastrosamente superato.

Fu la fine anche delle star?
Un paio ne rimangono, tipo Brad Pitt e Leo DiCaprio – forse Julia Roberts (ride, ndr). Sì certo, dopo iniziò l’era delle celebrità e la fama diventò più legata semmai a specifici ruoli che non alle singole star. Anche per questo mi ritengo fortunato di aver lavorato con quelle che considero due delle maggior star e fra gli attori più bravi della loro generazione.

Sono passati 25 anni da «Pulp Fiction» cosa è cambiato nella sua Hollywood, cosa le manca di più?

La cosa principale è che allora tutti giravano ancora in 35mm e i film erano tutti proiettati su pellicola. Un’altra cosa è che fino agli anni 90 esisteva ancora un cinema legittimamente indipendente. Io sono nato come film maker indipendente. Esisteva in modo molto simile a come esisteva la musica alternativa. Era entusiasmante: si potevano girare lungometraggi e trovare una distribuzione, non solo a Los Angeles o New York ma in tutta America. Fu così per Le Iene. Quel mercato oggi non esiste più.

E lei come è cambiato?

Sono decisamente un uomo meno arrabbiato (ride, ndr). Né giovane né arrabbiato ormai. Forse perché non credo di dover dimostrare più nulla più nulla – sono felice.
Ha detto spesso che non avrebbe fatto più di dieci film. Ora che siamo al nono la pensa sempre allo stesso modo?
Si sento di aver fatto ciò che ho sempre detto di voler fare e che si avvicina il momento di tirare i remi in barca.