Michael Bay, fra i registi in attività a Hollywood, è, probabilmente, quello maggiormente frainteso se non addirittura detestato. Cineasta dallo stile visivo inconfondibile, cantore delle metamorfosi della macchina-cinema, Bay, proveniente dalla pubblicità, è anche uno dei registi di maggiore successo degli ultimi decenni. Film come il dittico dei Bad Boys, Armageddon o la trilogia dei Transformers, hanno messo in luce un regista dotato di una poetica tonitruante e incantato dal dettaglio e dai bizantinismi del montaggio più calibrato.

Esteta dell’immagine di massa, Bay, proprio come Tony Scott, se non di più, è riuscito nell’impresa di codificare un cinema fatto di segni ricorrenti, di una retorica riproducibile come un sistema coerente, immutabile e, grazie alla passione per un grado zero filmico praticato con olimpica audacia e follia, a mettere a punto un sistema «auteuriale» perfettamente riconoscibile. In attesa del quarto capitolo della saga dei Transformers, Michael Bay si è concesso un detour dai propri percorsi abituali realizzando, con un budget di «appena» 26 milioni di dollari, una folle commedia post-noir che s’ispira a un bizzarro e purtroppo autentico caso di cronaca nera di Miami.

Mark Wahlberg, assieme a Dwayne Johnson e Anthony Mackie, rievoca le gesta della Sun Gym Gang, una banda di culturisti pompati di steroidi e anabolizzanti fino agli occhi, i cui exploit sono stati documentati dal giornalista Pete Collins per il Miami New Times. Ossessionato dal sogno di essere «come gli altri», ossia ricco come i clienti della palestra per la quale lavora, la Sun Gym, appunto, Wahlberg decide insieme ai suoi soci di rapinare Viktor Kershaw (Tony Shalhoub), un imprenditore d’origini colombiane. L’uomo, nella realtà si tratta di Marc Schiller, è più coriaceo del previsto e i tre culturisti progressivamente mettono da parte ogni scrupolo e prudenza pur di ottenere il proprio scopo. Che Michael Bay abbia un senso dell’umorismo che non badi per il sottile è evidente da alcune delle gag più efficaci di Bad Boys 2. Niente di quanto è già affiorato nella filmografia del nostro può preparare però all’orgia di fantasmagorica violenza pop annegata in cromatismi saturi e lividi che non teme la rampogna del politicamente corretto.

Attraversato da un violento nichilismo che spara ad alzo zero, il film a tratti ricorda il George Armitage di Miami Blues, acidissimo noir semidimenticato ambientato a Miami e interpretato da Alec Baldwin e Fred Ward. Wahlberg e compagni si muovono tutti sopra le righe. In un delirio di consapevole overacting, Bay traccia un agghiacciante ritratto di un’umanità mostruosa, preda dei propri sogni mediocri e intimamente criminale. Il film non lascia adito al minimo sospetto: quelli della Sun Gym Gang sono degli imbecilli oltre qualsiasi possibilità di redenzione. Incapaci persino di portare a termine la più banale delle conversazioni. Eppure si tratta di imbecilli «americani». Bay non si ferma davanti a nulla: il suo trio di criminali, esemplificazione, se si vuole, di una variazione post-moderna di quell’umanità «criminale» denunciata instancabilmente da Pasolini, è tratteggiato con un’aggressività che richiama sia John Waters che George Kuchar. Con una differenza cruciale: Bay non ama i suoi personaggi. Li disprezza.

La derealizzazione alla quale Bay sottopone i corpi e Miami è agghiacciante. Il mondo diventa così l’immagine pubblicitaria degli Stati uniti. All’interno di questa discarica delle merci inutili, eppure agognate, la gang dei palestrati diventa, paradossalmente (ma non tanto), il modello di un’umanità mutante, implosa. Terminale. Bay filosofeggia con il martello pneumatico e «moraleggia» peggio. Eppure il suo film possiede un’energia arrogante quasi quanto quella del mondo cui chiede di osservarsi allo specchio.