Rosario vende pupazzetti di peluche in giro per l’Italia, feste, giostre, poco importa. Con lui lavorano la moglie e i figli, tutti insieme nella stanza a mangiare, a dormire, davanti alla tv sempre accesa. Sharon, una delle figlie di Rosario ha una bella voce, conosce le parole dei neomelodici che accompagnano la giornata, parlano in dialetto come loro, napoletano stretto, raccontano di amori e di miserie, di famiglie sfasciate e di riscatti, li fanno sognare che forse un giorno anche loro avranno soldi e celebrità. Sharon ha cominciato a cantare da piccolina, Rosario la filmava, e adesso che ha tredici anni si è messo in testa di lanciarla: sarà il loro riscatto, sarà il successo che sembra all’improvviso possibile. «Volevamo raccontare la brama di rivalsa che è archetipo senza tempo né luogo … Abbiamo visto Rosario calpestare il suo cielo come un soldato il campo di battaglia, e imbracciare Sharon come arma solitaria e finale. Abbiamo scelto di stare con loro, attaccati alle loro vite, alla guerra dichiarata per costrizione e conservazione, nobile nelle intenzioni e beffata nell’effetto. E Rosario e Sharon hanno scelto di stare con noi, giocando la sfida di reinventare la propria vita» scrivono nel dossier stampa Silvia Luzi e Luca Bellino, i due registi di Il cratere il titolo italiano su cui ha scommesso quest’anno la Settimana della critica.

Una intenzione resa manifesta nelle immagini primi piani ravvicinatissimi che tagliano fuori l’ambiente intorno, sempre più lontano, quasi inghiottiti anch’essi nella «decisione» dell’uomo. E prima ancora nel lavoro di scrittura svolto insieme ai protagonisti, Rosario e Sharon Caroccia, che interpretano se stessi, o meglio i personaggi in cui la distanza narrativa li ha trasformati. Anche Il cratere fa parte dunque di quella cifra della realtà da cui sembra nutrirsi negli ultimi anni il nostro cinema, Luzi e Bellino hanno alle spalle un lavoro come documentaristi. I riferimenti più evidenti sono La pivellina, il bel film di Tizza Covi e Rainer Frimmel, anche lì i protagonisti erano se stessi e personaggi al tempo stesso coi quali i due registi – hanno trascorso molto tempo provando a restituire in un lavoro comune di realizzazione la loro vita quotidiana. Ma anche di Reality di Matteo Garrone, nel racconto di un’ossessione che diviene malata fino alla follia. Perché è così che Rosario vive l’aspirazione di fare della figlia una piccola neomelodica di successo: la tormenta, le impedisce scuola, giochi amiche, le toglie il fiato, la devasta tanto che la ragazzina non ce la fa, e però nel ricatto affettivo si arrende ogni volta per non deluderlo mentre lui trasforma la loro casetta in una sorta di set del Grande Fratello per non farsi sfuggire un istante della vita della ragazzina.

In entrambi, i film però, La pivellina e Reality, l’elemento fondante era il punto di vista degli autori che è quanto muove la storia e dichiara un’assunzione di responsabilità rispetto al proprio soggetto, al paesaggio che lo contiene. Di Luzi e Bellino non si sente la presenza – se non nel gesto di «incollarsi» ai personaggi – cosa che fa perdere di intensità il crescendo dell’ossessione, dispersa tra padre e figlia (che ne è vittima). E soprattutto questi vissuti (con una bella colonna sonora (a cominciare da ’Na Stella scritta da Gianmaria Testa per Fausto Mesolella) rimangono chiusi in sé senza portarci da altre parti, senza aprire alle immagini un orizzonte del possibile.