«Roma ti fa perdere un sacco di tempo». Se così non fosse stato, Jep Gambardella sarebbe diventato un grande scrittore. Invece si è fermato a quel primo romanzo giovanile, L’apparato umano, che da solo è bastato però a lanciare il suo autore nel jet set della capitale. Non c’è festa, pettegolezzo, appuntamento mondano riservatissimo, evento esclusivo a cui Jep non partecipi o di cui non sia informato. Penna caustica per una rivista influente, è adorato dalla potente direttrice donna decisa e insieme sentimentale ma senza sentimentalismi.

Tutti lo chiamano, tutti vogliono un suo parere, Jep e la piccola comunità che lo circonda sono il centro del mondo. Eppure qualcosa non torna: il dubbio, il disgusto persino, un sentimento amaro sembra aver preso in lui il posto del piacere. Colpa degli anni che passano, dello spettro della vecchiaia che avanza? «Conosco tutti ma questa non è felicità» dice a se stesso nel corso delle lunghe passeggiate notturne Jep, ripreso di spalle, col fisico e la voce un po’ contraffatta e «teatrale» di Toni Servillo, una sagoma che a tratti somiglia a quella di Andreotti nel Divo.

È pur sempre la Città Eterna del resto, con le sue chiese e i conventi, le cupole e le campane, gli antri nobiliari decadenti o prestati alla politica anche se Paolo Sorrentino ha deciso di tenerla fuori la politica, non ce ne è nemmeno uno di politico nella sua fauna, ma le feste e i riti di società che attraversa l’inquieto Jep somigliano molto a quelli del Batman di Anagni, l’ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio Franco Fiorito, e della ex-governatrice Renata Polverini, con le maschere di maiali e i costumi dell’antica Grecia che hanno fatto il giro della rete.

Non è un Dagospia (Roberto D’Agostino è ringraziato nei titoli di coda) il nostro Jep, pure se intorno a lui domina lo stile «Cafonal» (peraltro un vecchio progetto poi abbandonato di Matteo Garrone), e meno che mai un Arbasino, maestro di stile, pure se ammirato senza condizioni dall’amico eterno aspirante scrittore (Carlo Verdone). Non è gay nonostante uno sguardo languido gettato a un ragazzetto con magliettina bretone, ma è senza dubbio misogino, difatti quando scopa con la bella ospite di una sera (Isabelle Ferrari), se ne va in silenzio perché con l’età ha capito che non vuole più perdere tempo.

Ci sono però nella Roma sorrentiniana i cardinali, che parlano di cucina ma non sanno cosa dire se interrogati sulla spiritualità (Roberto Herlitzka). Le nobildonne ancora potenti e quelle decadute, che si fanno noleggiare a poche centinaia di euro a cena per continuare a vivere nei sottoscala dei loro palazzi. C’è l’attrice che ora vuole essere scrittrice, c’è quello due-pose-in-.una fiction e mi-piace-Ammaniti-e-pure-Proust. Ci sono le monache e i preti tutti in fila col vento che gli scompiglia le vesta come ai funerali di Wojtila o in una composizione di Giacometti. I ragazzini impertinenti e i fancazzisti che nella vita-cosa fai-sono-ricco. I maghi e i prestigiatori, le intellettuali di sinistra che scrivono fiction per la tv (Galatea Ranzi), le spogliarelliste attempate che si ammalano e muoiono con struggente a tenerezza e sanno ridere davanti al lusso (Sabrina Ferilli) i fidanzati muti (Severino Cesari molto divertente).

Le bimbe fenomeno e i mercanti d’arte, i vecchi residui della Via Veneto d’altri tempi, prima che gli emiri comprassero tutti i grandi hotel, e quelli che ora guidano i turisti massa sovrastante nelle strade della città. E le figure misteriose di cui non si sa nulla, uomini con la giacca del migliore sarto che covano segreti e muovono invisibili il mondo.

La Grande Bellezza (in sala oggi) è il ritorno di Paolo Sorrentino sulla Croisette, scelta poco condivisa da una parte della critica francese che non lo ama affatto – ma perché sempre lui si chiedono i Cahiers du cinéma. Al centro c’è Roma, la città anche del cinema, che lui ostenta, esibisce nelle luci e nelle ombre (grana di Luca Bigazzi) più identificabili, quasi un’estetica da cartolina popwarholiana, o da manuale per i turisti stupefatti davanti a un tramonto o davanti al Colosseo, e di fronte alla «Bellezza»si può anche morire come accade allo sparuto turista giapponese nella sequenza che apre il film.

Roma kills everyone, già, ma questo sarebbe un altro film. Cosa ossessiona invece Sorrentino? Quale è la «Bellezza» che cerca con la magniloquenza esibita fino allo sfinimento virtuosistico della sua macchina da presa? La «Bellezza» che ruba lo sguardo, e stordisce? [do action=”citazione”]E la città chiassosa e falsamente accogliente, anche Sorrentino arriva da fuori come lo sceneggiatore Umberto Contarello, e come Jep, appunto, il protagonista, e tanti altri che si sono fatti risucchiare nella medietà della fiction ben remunerata o nel silenzio.[/do]

Nella sua antropologia dei salotti, è una Città trasognata dall’alto, vista quasi soltanto dalle terrazze dei palazzi. Non sono più i tempi della Dolce Vita e Roma non è più la città del cinema anche se il cinema si fa sempre a Roma. Ed è quel cinema che Sorrentino cerca, o meglio la sua immagine svuotata come in una specie di parco a tema. Jep con le sue notti bianche, è un Marcello felliniano, divenuto cinico con la fine dell’innocenza. Fellini è disseminato nelle apparizioni improvvise di stravaganze, giraffe che spariscono, donne luccicanti di trucco ( e con lui Moretti degli Ecce Bombo e Pasolini ..).

Tracce. O forse riferimenti svuotati anch’essi. Fellini i suoi personaggi li amava, mentre Sorrentino dichiara un’algida distanza da loro e dagli attori che li interpretano, e soprattutto lui non si mette mai in gioco, mai un commento, un pizzico di autoironia, qualcosa che faccia tremare la sicurezza dello sguardo, che inietti la confusione dei nostri tempi (e un balletto stile Amici non basta).

Se questo deve essere il racconto dell’Italia oggi, è francamente un po’ facile e parecchio banale, posticcio soprattutto e privo di necessità. Sembra che piuttosto al regista interessi solo la sua di bellezza, la bellezza delle sue immagini, il suo virtuosismo dalla prima inquadratura che vorrebbe stupire. Ma non è questo il barocco, che del proprio tempo è espressione violenta e sublime di bellezza e di mostruosità (forse Sorrentino dovrebbe rileggersi Brandi). Il suo è un barocco fine a se stesso, un barocco senza barocco, che volteggia volteggia in una vertigine senza emozione.