Due sono le premesse del volume Gli intellettuali nella crisi della Repubblica 1968-1980 (Viella, pp. 406, euro 34), elaborato nell’ambito di un ciclo di seminari organizzati dalla Fondazione Gramsci di Roma e uscito a cura di Ermanno Taviani e Giuseppe Vacca.

LA PRIMA è che «i gruppi intellettuali costituiscono lo stato più sensibile ai processi di modernizzazione». La seconda che negli anni Settanta, come scrive Roberto Gualtieri, «diventarono egemoni indirizzi che rappresentavano una soluzione di continuità con le correnti di pensiero alla base della Repubblica ed esprimevano un distacco profondo non solo con l’esperienza della democrazia italiana, ma con la stessa vicenda dello Stato unitario». Secondo lo studioso, i giorni del sequestro Moro avrebbero rivelato i tratti di una «questione degli intellettuali».
Da questa osservazione – spiegano i curatori – è nata l’esigenza di allargare lo sguardo sui «ceti colti» con il coinvolgimento di un ricco parterre di studiosi e con risultati davvero innovativi.

SPICCA IN APERTURA il contributo di Alessio Gagliardi, che investiga i primi dieci anni di «Repubblica» e mostra come il quotidiano-partito ideato da Scalfari non sia stato solamente osservatore, ma anche attore di rilievo della scena politica. Se l’obiettivo di fondo era influenzare il percorso del Pci berlingueriano in direzione liberal-democratica, gli strumenti culturali spaziavano dalla nuova cultura dei diritti alle ultime teorie sul postmoderno. Sarebbero scaturite allora le campagne contro la «partitocrazia» e il «consociativismo». Gagliardi si sofferma poi sulle critiche alla «solidarietà nazionale», un leitmotiv nel libro che ritorna anche nell’analisi di Gregorio Sorgonà su «Lotta continua» e sull’interpretazione che il quotidiano dava della Resistenza.
Arriviamo così a un punto nodale del libro: le diverse letture della storia d’Italia e l’utilizzo dell’antifascismo, vuoi per legittimare la sinistra tradizionale, vuoi per attaccare le scelte del Pci.

COME EMERGE dalla ricostruzione di Guido Panvini, la trasformazione socio-culturale del «lungo Sessantotto» e l’impatto del «terrorismo di sinistra» imponevano agli intellettuali comunisti un ripensamento profondo. Ne forniscono un esempio particolare le annotazioni di Pasolini dalla pagine del «Corriere della sera» sulla «trasformazione antropologica» dettata dal neo-capitalismo e sulla subalternità delle sinistre a questo processo (vedi il saggio di Tommaso Baris).

Ma uno dei punti di forza del libro è che mette in luce in che modo la crisi e l’emergenza della lotta armata – su cui si sofferma il contributo di Taviani relativamente al caso «7 aprile» – interrogassero tutte le culture politiche con esisti talvolta diametralmente opposti.

Lo spiegano bene Umberto Gentiloni a proposito della proposta di rinnovamento democratico del cattolico Pietro Scoppola (in prima linea per il divorzio) e Giovanni Mario Ceci nel suo studio sulle preoccupazioni dell’«antimodernista» Augusto Del Noce di fronte al progetto «eurocomunista».

UN’ATTENZIONE particolare merita, infine, la ricostruzione di Luigi Ambrosi su Norberto Bobbio editorialista della «Stampa», figura fondamentale nella polemica contro il potere dei partiti, e che Gualtieri mette al centro del proprio discorso sulle critiche rivolte allo Stato durante il rapimento Moro e sugli assetti politico-culturali che caratterizzeranno i decenni a venire.

Come si ricorda anche nell’introduzione, gli anni Settanta furono dunque un periodo decisivo da cui sono scaturiti i problemi più acuti dei nostri giorni, in primis quello della crisi dello Stato moderno e della cosiddetta «Repubblica dei partiti» con il suo involucro culturale. I saggi pubblicati in questo ricco volume confermano che di tale processo gli intellettuali furono diversamente avvertiti e per motivi diversi protagonisti. Nello stesso tempo, attraverso la lente degli intellettuali, i diversi contributi forzano le premesse del libro sulla «crisi politico-democratica» e investigano l’altro lato della medaglia: una società più vivace dei suoi vertici politici e in cui maturavano domande che toccavano questioni profonde (diritti, identità, autodeterminazione).

Una seconda tappa di questo interessante percorso potrebbe riguardare allora altre correnti culturali – il laboratorio del «manifesto», i radicali, l’operaismo e soprattutto il cantiere del neo-femminismo – necessarie per completare il quadro e mettere maggiormente in evidenza quella trasformazione del discorso politico di cui ancora oggi fatichiamo a tenere insieme le contraddizioni.