Un film terminale. Un film impossibile – un cambio di gender impartito come la più ineffabile delle vendette – e una provocatoria domanda di sospensione di incredulità, la più forte dai tempi di M Butterfly di David Cronenberg. Walter Hill con The Assignment porta la sua idea di stile alle soglie della purezza opaca del magistero langhiano. Come già nel magnifico Undisputed, l’idea del « living gracefully», ossia vivere con grazia, diventa segno e dichiarazione politica.

In questa torsione, Frank Kitchen/Michelle Rodriguez trasformato in donna, (ri)vive anche il geniale femminismo del Blake Edwards di Nei panni di una bionda. Hill, però, si spinge oltre. Non tenta nemmeno di occultare l’artificio, la trasformazione. Nell’epoca della veromiglianza fotorealistica e digitale, lui esibisce l’impossibilità di credere a un’immagine, mostra (lavora…) con i limiti dell’immagine e del visibile. Appellandosi al magistero di Poe (citato dalla dottoressa Jane), Hill compone (di questo si tratta) il suo film come puro stile: lo stile che alla maniera di Baudelaire può aspirare a spostare le linee (che è anche un crimine…). E non sorprendono i punti di contatto con l’altro grande saggio di stile «poeiano» che è Twixt di Francis Coppola. The Assignment, film dalla genesi complessa e laboriosa, emerge con un ghigno sardonico e la precisa potenza formale di un gesto filmico che è anche – soprattutto – il racconto di un cinema e di un mondo. Hill, sempre accusato di essere un mero formalista, sin dai tempi di Driver l’imprendibile, firma così il suo film più «giapponese», uno shojo manga noir. I Cahiers, semplicisticamente, citano Sin City per descrivere gli inserti fumettistici, dimenticando forse che la « seconda » versione de I guerrieri della notte era già un vero e proprio fumetto.

Come un vecchio professional che non può fare affidamento che sul suo gesto, segno e qualità di un’idea di lavoro (e di sguardo), Walter Hill si ritrova, come i maestri che lo hanno preceduto, da Ford a Hawks, a realizzare il lavoro più modernista della sua carriera quando il cinema di cui si è nutrito non esiste più. Dopo essersi (quasi) sempre mimetizzato come segno nella precisione di un’esecuzione impeccabile, Hill con The Assignment lo mette completamente a nudo. Lo manifesta come alterità: lo stile come un altro reale. Ed è questa precisione chirurgica, come se il committente fosse la Republic e non Saïd ben Saïd, nell’evidenziare le geometrie e l’architettura del suo segno a fare di The Assignment un film politico come il cinema americano oggi forse non è più in grado di pensare. L’essenzialità nella gestione delle linee, l’entrare e uscire dai corpi, l’olimpica indifferenza nei confronti di tutto quanto non sia inerente al processo di messa in scena del film, sono una dichiarazione di resistenza e di sfida. Guardare è mettere in discussione i discorsi del mondo.

Oggi The Assignment è davvero il punto di arrivo e di riscrittura di una certa idea del cinema americano come lo abbiamo conosciuto e amato. Nulla è più come era ma, a pensarci bene, un film così avrebbe potuto immaginarlo Edgar G. Ulmer, Ida Lupino e forse persino Howard Hawks.

Che a causa delle modificate condizioni produttive e ambientali The Assignment assomigli a uno sfregio punk non fa altro, ai nostri almeno, che accentuarne il valore politico. Walter Hill, con The Assignment abbraccia pienamente Poe: «Ed è mia intenzione di rendere manifesto come nessuna parte di questa poesia sia da riferire al caso o all’intuizione, e che l’opera procedette, passo dopo passo, verso il suo compimento con la precisione e la rigorosa consequenzialità di un problema matematico».