Quando, nell’estate del 1966 Primo Levi era sul punto di pubblicare presso Einaudi la raccolta di racconti dal titolo Storie naturali, era già consapevole, seppur nella propria abituale ritrosia ad ammetterlo per primo a se stesso, del valore civile della sua opera che, dopo l’uscita presso l’editore torinese di Se questo è un uomo nel 1958 e La tregua nel 1963, ne aveva fatto una delle voci più autorevoli della testimonianza dall’universo concentrazionario nazista.

Non era stato sempre così, visto che nell’immediato dopoguerra il manoscritto dedicato alla sua prigionia ad Auschwitz aveva trovato accoglienza solo presso una piccola casa editrice, la De Silva nel 1947, mentre il contratto con Einaudi sarebbe arrivato solo nel 1955 quando, nel decennale della liberazione, la memoria dello sterminio ebraico avrebbe cominciato a diventare, anche per il tramite delle sue opere, un fatto pubblico, assunto nella nuova repubblica antifascista.

Anche per questo, come ricostruito da Carlo Zanda in Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila (Neri Pozza, pp. 288, euro 13,50), la vicenda che portò Levi a firmare con uno pseudonimo – il nome che aveva letto sull’insegna di un elettrauto di corso Giulio Cesare, nella sua Torino -, quella raccolta di storie fantascientifiche, malgrado non abbia conquistato l’interesse dei biografi, costituisce per molti versi «un crocevia nella sua avventura umana».

Si misurano infatti in tale scelta quelle che a prima vista sono spesso apparse come le due dimensioni del personaggio: quella dello scrittore e quella del testimone. Mentre invece, come ricordato da Ernesto Ferrero evocando la richiesta fatta da Einaudi a Levi per l’uso di uno pseudonimo per quei racconti, così lontani in apparenza dal portato della memoria dei campi, «non avevamo capito allora quel che è diventato chiaro in seguito: che non ci sono due Levi, il memorialista e il libero narratore, ma uno soltanto, in cui tutto si tiene».