«In una situazione senza uscita non ho altra scelta che quella di farla finita». Sono le ultime parole che Walter Benjamin scrisse ad Adorno quando, braccato dai nazisti e bloccato dalla polizia di frontiera spagnola, decide di togliersi la vita con una overdose di morfina. Il pomeriggio successivo, a confermare l’avversità della sorte nei suoi confronti, sarebbe arrivato il visto che gli avrebbe consentito di imbarcarsi negli Stati Uniti. È il noto epilogo di una vicenda esistenziale costellata da delusioni e fallimenti senza sosta, l’atto definitivo di una vita mutilata e offesa, su cui la sfortuna non ha smesso di accanirsi nemmeno dopo la morte: il suo cadavere verrà gettato in una fossa comune, rendendo così impossibile qualsiasi identificazione.

C’è tuttavia, nella sventura benjaminiana, una purezza straordinaria, data da un instancabile desiderio di libertà. Troppo spesso, infatti, si è guardato al pensiero di Benjamin con giudizio malinconico e arrendevole, come se i fallimenti della sua esistenza si siano riversati in ogni riga e in ogni parola dei suoi scritti. Si è diffusa perciò l’immagine di Walter Benjamin «magnifico perdente», il cui pessimismo malinconico si riflette nello sguardo dell’angelo della storia: così come quest’ultimo viene spinto verso la bufera, che si impiglia nelle sue ali e gli impedisce di fermarsi, allo stesso modo Benjamin, con la sua imperizia, con la precisione di un sonnambulo (come racconta bene di lui Hannah Arendt) riusciva a dirigersi sempre al centro della catastrofe.

SE SI OSSERVA per un momento quell’uomo cardiopatico, logorato nel corpo e nello spirito dall’internamento nei campi di prigionia nazisti, che fino all’ultimo cerca disperatamente la sua redenzione, inerpicandosi lungo un pietroso sentiero dei Pirenei; se ci si sofferma con attenzione su questa goffa figura che porta con sé una valigetta nera contenente pagine ben più importanti, a suo dire, della sua stessa vita, si noterà che quanto più la sventura lo perseguitava, tanto più egli era in grado di tirare fuori frutti spirituali di infinito valore. Se si osserva con la dovuta cura l’opera di Walter Benjamin si riuscirà a vedere un instancabile combattente, sempre disposto a sondare con determinazione eroica ogni ambito del sapere, mai pago delle consolazioni date dalle varie forme di rappresentazione della realtà e sempre alla continua ricerca di esperienze in grado di rivoluzionarla.

È da una simile prospettiva che si deve guardare alla recente pubblicazione degli scritti politici benjaminiani, nel volume curato da Massimo Palma ed edito da Castelvecchi, il cui titolo è emblematico: Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940) (pp. 304, euro 25). La Politik è infatti un oggetto teorico frammentato, sparso, dissolto sottotraccia e sedimentatosi nell’intero quadro dell’opera di Benjamin senza un intento sistematico preciso. Una «teleologia acefala», priva appunto di quell’elemento di finalità che si determina nell’idea kantiana di un soggetto morale che agisce nel mondo. Uno spazio vuoto, quello della finalità della politica, che se da un lato inquieta, dall’altro invita ad andare oltre una prospettiva banalmente soggettivistica, a rimodellare e a riformulare la nostra esperienza stessa di soggetti.

È QUESTA L’ESSENZA della Kritik benjaminiana: un nichilismo metodico che deve fare tabula rasa di una concezione tutta moderna dell’esperienza, ormai non più in grado di ricongiungerci autenticamente con il nostro intero patrimonio culturale. L’esperienza del soggetto si configura come una «acquiescenza confacente» in cui «il senso della relazionalità si ottunde man mano che il meccanismo sociale funziona», come ben scrive Libero Federici nel suo Il misterioso eliotropismo. Filosofia, politica e diritto in Walter Benjamin (Ombre Corte, pp. 141, euro 13). Il merito di questo bel saggio è ricostruire i nodi tematici principali della riflessione benjaminiana mettendone in risalto la posta in gioco politica. Questa consiste nel continuum del rapporto identitario fra violenza e diritto, che rende il dominante di ogni epoca l’erede di tutti coloro che hanno sempre dominato nella storia.

Ecco dunque la povertà che caratterizza l’uomo moderno, la sua ricaduta nella barbarie mitica, prodotto di una Kultur che non è altro che pura mimesis, «assimilazione levigata al meccanismo sociale». L’immedesimazione emotiva con i vincitori va sempre a vantaggio dei dominatori del momento. È questa la civiltà, il corteo trionfale in cui i dominatori danno mostra del loro bottino: un patrimonio culturale in cui ogni documento è sempre anche, e soprattutto, un prodotto della barbarie, il risultato di un servaggio, di un abuso, di una violenza amministrata, e perciò riprovevole, perché esercitata storicamente come diritto.

SI SPIEGA allora la necessità di fare tabula rasa di questa esperienza su cui si è edificato il soggetto moderno: un soggetto povero a cui la storia, con il suo continuum, ha negato il fondamentale diritto alla differenza.
Scardinare questo continuum della storia diventa allora il compito autentico della Politik benjaminiana, che è priva di finalità, appunto, perché il modello di storia a cui fa riferimento è fondato sullo Jetztzeit, su una nozione del presente che non è transizione temporale, mero passaggio, ma al contrario stasi, arresto: quell’adesso che rappresenta il freno d’emergenza politico della storia, la chance sempre attuale della differenza.

È IN QUESTO «ADESSO» che si inserisce l’interessante saggio di Giuseppe Buondonno, Il soggetto rivoluzionario. Attualità di Walter Benjamin (Ombre Corte, pp. 142, euro 13), dove la battaglia benjaminiana sul vero concetto di storia viene presentata come quella battaglia «che consente al soggetto la comprensione critica di sé stesso». Infatti «solo il soggetto che distrugge l’immagine reificata di sé può reinterpretare la realtà e la propria storia, può essere altro».

L’attualità del pensiero di Benjamin consisterebbe allora nella sua capacità di restituire al soggetto di oggi la vitalità del pensiero di Marx, ovvero la possibilità di cogliere nella lotta di classe quella capacità di «esprimere i processi storici come soggettività reale»: una precisa prassi politica in cui il soggetto rompe lo scrigno incantato della naturalezza apparente dei rapporti sociali per riconoscersi come «sostanza cosciente della storia», in grado perciò di articolare storicamente il passato, e di distruggere il continuum ideologico del dominio. Ma si badi, non si parla qui di un soggetto monolitico, omogeneo, coerente con sé stesso e autoreferenziale nelle sue varie modalità di esperienza del mondo: non si tratta, banalmente, del soggetto kantiano, trascendentale e piatto, ma di un soggetto rivoluzionario, storico, che incorpora in sé stesso l’elemento distruttivo, la crisi, e che sulla crisi si costituisce. Nella storia, infatti, «non si tratta mai di risposte evolutive alla crisi (anche nel caso delle risposte democratiche), ma di risposte soggettive al movimento reale di un soggetto determinato».

ECCO APPARIRE, allora, di nuovo, la centralità della lotta di classe: la contraddizione, l’espressione più acuta ed evidente del carattere soggettivo della trasformazione storica. Sarebbe sempre il soggetto, quindi, nella lettura di Buondonno, a rappresentare la capacità di trasformare il punto di vista sulla storia, a generare la rottura con la tradizione, ad assumere su di sé la distanza critica della mediazione dialettica.

Un’idea forte di soggettività rivoluzionaria, che si costruisce nel rapporto con quelle esperienze capaci di produrre un punto di vista critico verso quei processi che hanno progressivamente svuotato e impoverito la nostra eredità umana, gettandoci nuovamente nella barbarie. Barbarie che, tuttavia, ha anche una valenza positiva, perché ci induce a ripartire da zero, a ricostruire una coscienza dei soggetti. «La possibilità del radicalmente nuovo nasce proprio dalla coscienza del radicalmente povero». Lasciarsi attraversare dal negativo, dunque, organizzare politicamente il pessimismo. Questo è il messaggio politico autentico di Benjamin. Contro ogni estetizzazione della politica, è necessario invece riorganizzare i disperati, gli ultimi, le rovine frammentate della storia. Non più piangere, non più sperare, ma cercare nuove armi.