Scrivere la biografia di Leone Ginzburg, intellettuale antifascista, con un saldo ancoraggio culturale maturato nel corso della sua breve ma vivacissima esistenza, assassinato dalla canaglieide nazifascista nel 1944 a soli trentacinque anni, è quanto di più avvincente ma, al medesimo tempo, difficile si possa fare. Abbondano le testimonianze su di lui, così come le tante tracce che ha lasciato nella cultura antifascista torinese. Non di meno, rimandi e richiami al suo magistero morale e civile, prima ancora che al suo operato di oppositore alla dittatura prima e resistente poi, sono presenti in diverse opere, a partire da quelle del suo amico di antica data Norberto Bobbio, che ne ha firmato un ritratto in Maestri e compagni (1994). Altre opere sono poi seguite, in un percorso di scoperta non solo di una figura di prima grandezza della Torino e dell’Italia antifasciste, ma soprattutto di socializzazione del lavoro politico da questi svolto partendo dalla dimensione del confronto critico con la cultura del proprio tempo. Della quale, per più aspetti, a partire dalla storia personale e della sua famiglia, proveniendo da Odessa, è stato un interprete in chiave cosmopolita. Ed è proprio dalla dimensione delle relazioni interpersonali dentro l’ambiente di nascita e di prima educazione, specificamente ebraico ed europeo, che Ginzburg matura quell’insaziabile curiosità per il mondo, come quell’approccio pluralistico, che sempre lo animeranno prima nel percorso di studi e poi di impegno professionale e letterario.

NON EBBE TEMPO di redigere un corpus di scritti pari alla sua effervescente intelligenza, se si fa eccezione per i lavori di russistica, del quale era uno specialista in via di affermazione, poiché l’accelerazione dei tempi e il progressivo coinvolgimento nell’azione antifascista, seguiti dall’incarcerazione, dalle leggi razziali, dal confino, dalla guerra e dalla lotta contro l’occupazione tedesca e repubblichina, lo assorbirono pressoché a tempo pieno. Continuò a studiare e a scrivere, nel mentre, però sempre più consapevole che la relazione tra pensiero ed azione era ciò che sanciva la specificità del ruolo dell’intellettuale nel Novecento italiano ed europeo. All’ombra del Risorgimento incompiuto e di una nazione fragile e incapsulata dal cialtronismo fascista. Non fu quindi certo un caso se, dopo l’incarcerazione a Regina Coeli, nella Roma resa cupa e grigia sotto il controllo germanico, fosse oscenamente torturato e, dinanzi alla sua indisponibilità a qualsiasi forma di compromissione, vi perisse.

Angelo d’Orsi, già ordinario si storia del pensiero politico presso l’ateneo torinese, ci consegna ora una biografia completa e compiuta di un italiano dai tratti eccezionali, già ai tempi del liceo definito «discepolo maestro». Con il titolo L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg (Neri Pozza, pp. 447, euro 19), l’autore prosegue ed integra un lavoro che da molti anni sta portando avanti, ricostruendo la formazione, l’evoluzione e le trasformazioni che hanno accompagnato La cultura a Torino tra le due guerre (2000) e gli Intellettuali nel Novecento italiano (2001). Il medesimo d’Orsi, in esordio del volume, ci rende compartecipi delle difficoltà di ricostruire pienamente una traiettoria civile, umana e politica della quale si hanno ricevuto, in eredità, molti segni che, tuttavia, rivendicano di essere ricomposti in un quadro unitario. Il lavoro che il biografo ha portato avanti nel corso di diversi anni di acribiosa ricerca, è un mosaico estremamente articolato e stratificato di tasselli eterogenei, destinati a trovare il loro posto all’interno di un’architettura esistenziale nella quale si rispecchiano (cosi come al pari si differenziano) gruppi intellettuali, figure politiche e soggetti di cultura destinati, soprattutto a Liberazione avvenuta, a svolgere un ruolo di primaria grandezza nella società italiana. Leone Ginzburg, marito di Natalia Levi, che sposerà nel 1938, diventa così una sorta di filo conduttore, sul quale misurare i pensieri, le idee, il sistema di valori che l’intreccio di rapporti intessuti in un nutrito gruppo giovanile trasferisce poi in consapevolezza politica.

DEI DIVERSI ASPETTI di questo lavoro di indagine compiuto da d’Orsi vale quindi la pena di mettere in rilievo alcuni tra i molti aspetti richiamati. Il primo di essi è il ritratto di una generazione che si forma e cresce intorno alla casa editrice Einaudi. I nomi sono tanti: tra di essi Carlo Levi, Massimo Mila, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Luigi Salvatorelli, lo stesso Bobbio. Collaborano a vario titolo a quello che da subito è un focolare antifascista, condividendo un comune denominatore, ovvero quello di registrare la crisi dell’antifascismo del decennio precedente e l’inderogabilità di dotarsi di categorie nuove, a tratti inedite, per comprendere la lunga durata e il consensualismo che il regime era stato in grado di garantirsi. Da questa indagine endoscopica nei meandri del fascismo vincente si costituisce un diverso modo di intendere la società e, quindi, la responsabilità intellettuale nei confronti di essa. Ginzburg sembra dotato di una rocciosa moralità, un’intransigenza che non tutti riusciranno a mantenere dinanzi a prove drammatiche, ma della quale, chiunque lo abbia conosciuto si dichiarerà comunque coinvolto. Il confronto con l’universo comunista – allora distante da molte delle suggestioni ancora perlopiù intellettuali del gruppo torinese – era inoltre un altro elemento che stava prendendo forma. Poiché, al netto dell’imprinting sociale di estrazione borghese di una buona parte di questi giovani, gli echi del 1917 e il lavoro cospirativo, ancorché di minoranza, portato avanti dal partito nel tessuto non solo operaio torinese, iniziavano ad assumere la fisionomia di questioni dirimenti, sulle quali misurare le dimensioni e le ricadute del proprio impegno.

TUTTA LA ROTTA, a tratti incerta ed ondivaga, molte volte generosamente individualista, altre volte faticosamente collettanea dei gruppi giellisti prima e azionisti poi, deve infatti confrontarsi con il mutamento radicale indotto dalla massificazione delle relazioni sociali che i tempi nei quali si trovano ad operare hanno introdotto nel rapporto tra le prerogative dell’intellettuale e l’azione del politico.
Un altro aspetto del volume è l’indagine, che corre su binari paralleli alla ricostruzione di una singola vita, di come si andò formando l’élite intellettuale di una nuova Italia (e di un’Europa liberata dalla morsa nazifascista). È questa, peraltro, una delle cifre fondamentali del lavoro di d’Orsi, e non solo a partire da questo volume. Si legge, in filigrana, il dato che rimanda al nostro presente e alla decadenza dei quadri civili e morali che stiamo vivendo in quanto epoca di nuova sofferenza. La scrittura dell’autore è pervasa da un’intima affettuosità nei confronti del biografato, quasi a volerne mettere ancora di più in rilievo l’umanità. A volte quasi adolescenziale, anche dinanzi a scelte di rigorosa maturità, come se un’esistenza non si fosse completamente dischiusa poiché obbligata a fare fronte, da subito, ad impegni tanto grandi quanto ineludibili. Un’umanità che, ad onore del vero, traspare anche dalle altrimenti asettiche foto segnaletiche della polizia, pubblicate di corredo nel volume; dal ricco apparato di documenti; dalla nutrita bibliografia; dall’apparato di note a conforto e riscontro delle affermazioni e delle valutazioni autoriali.

RIMANE IL FATTO che Leone Ginzburg, al pari di quanti lo precedettero, lo accompagnarono e lo seguirono (tra questi Emanuele Artom) nella città gobettiana e gramsciana, non si sarebbero riconosciuto nella categoria del «martirio», comprendendo costoro per primi che l’opposizione contro un regime, prima ancora che atto di virtù, è manifestazione di necessità della propria coscienza. Forse un obbligo crociano, laddove il filosofo ebbe parte nella formazione di quella generazione. Senz’altro un idealismo critico che identificava il carattere del secolo con quelli della lotta contro la spersonalizzazione, di cui il fascismo era la manifestazione più eclatante ed inquietante. Per nulla risoltasi una volta per sempre.