Dopo il successo della partecipazione «digitale» alla raccolta di firme referendarie, ora si registra il netto calo dell’affluenza al voto. Sono il sintomo della trasformazione della nostra democrazia.

Sempre più immediata, sempre meno meditata. Una democrazia divisa: da un lato il demos – il popolo – spesso indignato, ma poco propenso ad un impegno che vada oltre un click, un tweet, un’imprecazione contro lo stato di cose presenti. Dall’altra il kratos – il potere – impermeabile alle proteste. Quest’ultimo sembra seguire logiche puramente autoreferenziali, tecnocratiche, al più quelle vuote di significato della retorica populista, comunque lontane dal senso comune, dai bisogni sociali, dai problemi reali del primo. È come se la sovranità popolare non riuscisse più a manifestarsi dentro le nostre istituzioni repubblicane.

Qualcuno pensa che sia giunto il tempo di far parlare il popolo senza mediazioni. Si inganna: le «Leggi», da Socrate in poi, le fanno sempre i «Governanti». È per questo che l’essenza e il valore delle democrazie contemporanee non risiede nella decisione diretta del popolo, ma nella capacità di questo di concorre a determinare le politiche nazionali. Ai partiti e alle istituzioni rappresentative spetta poi dare forma e razionalità politica alle diverse domande sociali, dentro i luoghi del potere. Com’è scritto in apertura della nostra Costituzione: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Ed è per questo che non ci si può affidare esclusivamente alla partecipazione digitale. Dopo la raccolta delle firme per potere indire i referendum, saranno i poteri a decidere le sorti della richiesta. Il garante della costituzione (la Consulta) stabilirà se questi sono ammissibili, i poteri governanti (Governo e Parlamento) dovranno creare le nuove regole, sia che intervengano prima sia che provvedano successivamente all’eventuale abrogazione della vigente normativa.

Basta guardare al passato per accorgersi come il vero problema del popolo non è chiedere, quanto ottenere. Quante richieste si sono arenate perché ritenute inammissibili? Ed ancor più, quanti referendum espletati sono poi rimasti sulla carta per inerzia del legislatore?

È per questo che l’entusiasmo nei confronti degli ultimi quesiti referendari mi sembra quantomeno eccessivo. Non si tratta del merito, che è sacrosanto: tanto la liberalizzazione della cannabis, quanto la dolorosa questione dell’eutanasia sono due temi che devono da tempo trovare una regolamentazione legislativa. Nel secondo caso addirittura due decisioni della Corte costituzionale hanno chiesto al legislatore di intervenire. Questo invece è rimasto sordo, senza dare seguito alcuno. Ma proprio qui è il vero scandalo: l’inerzia delle Camere, che non troverà soluzione con un click.

Vero è, dunque, che una delle ragioni del successo nella raccolta delle firme digitali è da rinvenire nella debolezza del Parlamento, ma ciò non ha nulla di positivo. Anzi, deve far riflettere e preoccupare ancor più, solo che si ammetta che la democrazia telematica non esiste. Non è neppure difficile prevedere l’esito di questa esplosione di partecipazione passiva. Quando tra breve ci si renderà conto che non basta un voto travolgente (500.000 firme in quattro giorni per la raccolta sulla cannabis) per risolvere il problema, ci si dovrà di nuovo appellare ai poteri governanti. E allora tutti i nodi verranno al pettine. Se questi non saranno in grado di dare soluzioni adeguate tutto sarà ancora più difficile. Il popolo negletto, il potere delegittimato, la democrazia ancor più infragilita. Un esito a saldo negativo per tutti.

Sarebbe saggio tornare ad interrogarsi su come ripristinare una rappresentanza politica reale. Come far sì che il Parlamento riacquisti una sua centralità ed autonomia di indirizzo politico, in ragione della sua capacità di rispecchiare la volontà popolare e non più solo limitarsi ad esprimere la sua immagine riflessa; come assicurare ai rappresentanti della nazione la loro legittimazione «dal basso», senza far più dipendere la loro elezione e il loro successo politico dalla fedeltà ai diversi capicorrente; come dare corpo e forma politica alle moltitudini disperse, incanalando la rabbia entro strategie di effettivo e duraturo cambiamento sociale; come assicurare un seguito alle iniziative della cittadinanza attiva e dare senso alla partecipazione politica intesa non solo come investitura, ma anche come parte integrante del processo di definizione della volontà generale.

Sono questi i problemi di fondo delle nostre democrazie che non verranno risolti né da una raccolta di firme «a distanza», né da una vittoria elettorale dimezzata in assenza del popolo. Come scriveva in tempi austeri Pietro Ingrao, il merito storico della sinistra in Italia è stato quello di riuscire a collegare le «masse» al «potere». Oggi chi si propone più un simile compito?