Nelle prime pagine de Il Cacciatore Celeste, ottavo «pannello» del polittico iniziato nel 1983 con La rovina di Kasch, Roberto Calasso riportava un aneddoto sul paleoantropologo Jean Clottes. Condotto davanti a una parete di pitture rupestri, lo studioso concentrava la sua attenzione su una figura dall’aspetto di uno sciamano munito di tamburo. «È un orso» gli spiegava l’indiano Yokut che custodiva il luogo suscitando la sorpresa di Clottes, che replicava: «Avrei detto che si trattasse di un uomo». Ma subito veniva interrotto dall’indiano: «È la stessa cosa». Questo aneddoto, collocato nelle prime pagine del libro, rappresentava la piccola mappa di un articolato percorso, tra mito e letteratura, lungo la faglia che separa uomo e animale. Attorno alla stessa frattura – capace di unire non meno che di dividere – si muove il libro dell’antropologa francese Nastassja Martin Credere allo spirito selvaggio (traduzione di Marina Karam, prefazione di Antonio Franchini, Bompiani «Overlook», pp. 121, € 15,00) e anche qui, come nell’aneddoto rievocato da Calasso, protagonista è un orso. Decisamente meno lontano (nel tempo e nello spazio) e ben più minaccioso di quello della pittura rupestre. Le vicende narrate nel volume hanno infatti origine dal drammatico incontro avvenuto nella Kamcatka tra la giovane studiosa – nata nel 1986, diplomata all’École des Hautes Études e già autrice di Les âmes sauvages. Face à l’Occident, la résistance d’un peuple d’Alaska (2016) – e un esemplare di orso, in cui la donna ha avuto la peggio rimanendo gravemente ferita e sfigurata. È l’inizio di un’odissea che si muove su un doppio binario: il primo, medico, nel tentativo di ricostruire il volto e la mascella della donna («una guerra fredda ospedaliera franco-russa»); il secondo, interiore: un tragitto d’introspezione che assorbe la forza di quell’esperienza cogliendone in pieno l’eco ancestrale e primigenia.
Tra gli abitanti dell’estremo oriente russo è chiamata medka la persona sopravvissuta all’incontro con l’orso (il più venerabile tra gli animali, come sa chi ha letto I riti di caccia dei popoli siberiani di Éveline Lot-Falck), e quel nome trasforma l’individuo che lo porta in un essere che è metà uomo e metà orso. Incline per formazione e per professione a mettere in questione il concetto di identità, Martin avverte ora sé stessa come un campo in cui civiltà e mondo selvaggio, umano e animale, Oriente e Occidente lottano e si avvinghiano: «è anche il tempo del mito che si fonde con la realtà; il tempo passato che si fonde con l’oggi; il sogno che si fonde con la personificazione. La scena si svolge ai giorni nostri, ma potrebbe essere accaduta mille anni fa». Il sistema di significati che regola la vita ordinaria sembra uscire dai cardini alla rievocazione del trauma. La stabilità degli esseri si disintegra a partire dallo sguardo sospeso sulla soglia dell’incontro tra uomo e orso: il primo coglie il «fondo umano delle bestie», il secondo «la sua parte di umanità; il volto sotto il suo volto». Per rivolgersi al linguaggio utilizzato da Giorgio Agamben ne L’aperto. L’uomo e l’animale (2002), la macchina che governa la concezione dell’uomo è resa in questa esperienza inoperosa, non tanto tramite una nuova articolazione dell’umano e dell’animale, quanto attraverso l’esibizione del «vuoto centrale», dello iato che, nell’uomo, divide i due termini, una sospensione di quella stessa sospensione.
È uno sguardo, questo, che ha come posta in gioco l’incontro con una potenza «altra», il rischio di alterarsi, e trascina con sé la totalità dell’essente; come un sogno iniziatico, stabilisce un collegamento tra l’interiorità e ciò che sta al di fuori, «aprendo la possibilità di un dialogo». È questo, in fondo, l’insegnamento che Martin trae dalla vita al fianco della popolazione degli Eveni, distillata nelle parole del suo amico Ivan: «Vivere nella foresta è un po’ questo: essere un vivente in mezzo a tanti altri, oscillare con loro». Un insegnamento che può risuonare come una massima di ecologismo spicciolo, ma che invece, a ben considerarlo, relativizza le gerarchie ontologiche reimmettendo tutti gli esseri nel cerchio della legge della morte, della seduzione erotica e sanguinosa della caccia, della metamorfosi.
Nel cammino verso questa consapevolezza, la scrittura di Nastassja Martin si avvita in una autoanalisi dall’incedere sempre più vorticoso, sospesa tra tonalità più oggettive e interroganti, luminose e per così dire «scientifiche», e altre più libere, oscure, in cui hanno spazio visioni poetiche, autobiografia, confessioni di fragilità. L’autrice racconta di aver sempre avuto con sé, nei suoi viaggi di studio, due diversi strumenti di scrittura, «il taccuino diurno e il quaderno notturno»: il primo dedicato ai dati di ricerca, il secondo a frammenti di impressioni, a pensieri slegati e non filtrati dal rigore dell’indagine. In Credere allo spirito selvaggio sembra che queste due scritture si siano fuse, equilibrandosi, in un medesimo flusso, che potrebbe essere definito come la logica di un delirio. Ma si tratta di un delirio che non ha le sembianze codificate dalle categorie psicoanalitiche, è piuttosto un’onda che travolge l’interiorità muovendosi dall’esterno verso il centro e aprendo l’io all’invasione del mondo. Qualcosa di simile a ciò che tratteggiava Gilles Deleuze nella voce D come Desiderio del suo Abecedario (1995): «Non si delira sul padre o la madre, ma su tutt’altro. Il delirio – è il suo segreto – concerne il mondo intero. Si delira sulla storia, la geografia, le tribù, il deserto, i popoli, le razze, il clima…».