Il pensiero liberale mainstream si muove nel novanta per cento dei casi dentro i confini fissati da due dogmi (proprio di questo si tratta) che sembra quasi impossibile mettere in discussione. Il primo è che la scelta tra i valori o i fini ultimi non può essere sorretta da argomentazioni o giustificazioni razionali, ma si basa in ultima istanza su una sorta di arbitrio decisionistico: per esempio, la preferenza per la democrazia o la giustizia sociale non si può motivare in base a buone ragioni, ma riposa in fondo su una decisione.

IL SECONDO DOGMA del liberalismo mainstream è che la politica deve garantire il giusto trattamento o l’eguale rispetto per ogni individuo, per ogni partner della cooperazione sociale, ma non deve occuparsi del modo in cui ciascuno ricerca il proprio bene o la propria felicità. La politica si deve occupare del giusto e non del bene; suo obiettivo è quello di fissare le regole della convivenza ordinata, di consentire a ciascuno di muoversi liberamente senza essere ostacolato dagli altri; mentre sbaglia se pretende di indicare agli individui il modo in cui devono vivere o i beni collettivi che meritano di essere perseguiti. La politica, cioè la regola comune, riguarda la giustizia; la ricerca della vita buona, invece, è un problema che ognuno si deve risolvere da sé. E uno Stato che entrasse in questa sfera sarebbe subito condannato come Stato etico o paternalista.

Questi due dogmi del liberalismo non sono da sottovalutare, anche perché a sostenerli c’è l’autorità di molti grandi personaggi del pensiero moderno. Da Kant, che sosteneva che lo Stato non si deve occupare della felicità dei suoi cittadini, perché ognuno se la deve cercare a modo proprio, fino a Max Weber, convinto che non fosse possibile decidere razionalmente tra valori in conflitto. Se non si abbattono questi dogmi, però, è molto difficile costruire seriamente una visione critica della realtà.

PER ESEMPIO: molti di noi sono convinti che la solidarietà sia meglio dell’egoismo o della competizione esasperata; ma meglio in base a che cosa? In forza di quali argomenti? Se non è capace di rispondere a queste domande, il discorso critico si riduce a una esortazione che lascia il tempo che trova. Il merito dell’ultimo libro di Laura Pennacchi edito da Mimesis (che s’intitola, in latino volutamente un po’ maccheronico, De valoribus disputandum est, pp.170, euro 15) sta proprio nella nettezza con cui viene esso a fuoco questo problema. La posta in gioco della questione, mostra giustamente l’autrice, va ben oltre il terreno della filosofia, ma investe anche quello dell’economia, sul quale Laura Pennacchi ha dato, in passato, molti contributi importanti.

PURE L’ECONOMIA mainstream, infatti, si muove tutta all’interno dei dogmi del liberalismo prima ricordati: la razionalità è tutta confinata nell’ambito della scelta più efficace dei mezzi, l’agente economico è qualificato come un individuo autointeressato e teso a massimizzare la sua utilità, mentre i fini e i valori sono espulsi «dall’ambito del razionalmente indagabile e tematizzabile». Si possono conoscere razionalmente i mezzi adeguati a determinati scopi, ma niente si può dire su quali siano gli scopi degni di essere perseguiti.

ROMPERE QUESTA GABBIA concettuale non è facile; e allora, per lavorare in questo senso, Pennacchi compie un percorso, ricchissimo di letture e di informazioni, attraverso quelle prospettive di pensiero che hanno imboccato strade diverse, che hanno lavorato su quella che, nell’orizzonte contemporaneo, è una opzione sicuramente minoritaria. Per la critica alla indecidibilità dei valori, un punto di partenza insostituibile resta sicuramente il pluridecennale lavoro di Habermas (che tra poco festeggerà il novantesimo compleanno): l’universalismo, il rispetto di tutte le persone, non sono una scelta possibile accanto ad altre ugualmente plausibili; sono un imperativo della ragione stessa che, in quanto coessenziale al linguaggio, include già il riconoscimento della dignità e dei diritti di ogni parlante attuale o potenziale.

MA UN LAVORO importante, come ricorda Pennacchi, è anche quello cui hanno dato vita le più recenti elaborazioni della teoria critica, da Axel Honneth a Rahel Jaeggi: che hanno sdoganato (come già aveva fatto, nella prima generazione della teoria critica, Herbert Marcuse) la riflessione sulla vita buona, mostrando che è possibile e necessario argomentare razionalmente su quali siano le condizioni per una vita umana riuscita, felice, non vulnerata, non alienata.

Mostrando insomma che la domanda sulla buona vita, che per gli antichi era una questione centrale della filosofia, non può essere esorcizzata a favore di uno schema concettuale che conosce solo arbitrarie preferenze individuali. Pennacchi è interessata in modo particolare alle ricadute sociali ed economiche di questo discorso: la direzione è quella di un nuovo modello di sviluppo «neoumanista», centrato sulla demercificazione di ambiti della vita sociale, sui beni comuni, su un’economia moralmente e politicamente orientata, capace di rimettere in moto energie come quelle che caratterizzarono la grande esperienza storica, per Pennacchi paradigmatica, del New Deal rooseveltiano.