Adieu au langage è un capolavoro. E non perché è Godard e noi lo amiamo, ma perché in questo film il regista, 83 enne, ancora una volta ci mostra come sia possibile inventare una lingua di resistenza, la nostra, e quella del cinema, delle immagini, dell’immaginario. Godard non è dentro l’aria dei tempi, la precede, ne mette nudo il conflitto e il paradosso.

Ah, dieux. Un uomo, una donna. Le donne annoiano o uccidono. Every man kills things he loves. E un cane, il suo sguardo pone domande ininterrotte, il suo cammino compie giravolte misteriose e buffe, fa ridere come un Buster Keaton di altri tempi. Ha l’aria triste? No sta sognando. Muto cerca la parola. Il cane è il solo essere vivente che ti ama più di se stesso. Sulle rive del lago Lemans,in Svizzera, nella casa di Godard, sul divano dove dorme, Roxy Mieville, dal nome di Anne-Marie, compagna di Godard, fantastica i suoi inaccessibili mondi, tra il mercato delle pulci di Nyon e il bosco intorno. Le quattro stagioni segnano i due capitoli: «Natura», «Metafora».

Ogni nuovo film di Godard è: un punto sulla Storia, un punto sul cinema, un punto sulla storia del cinema di Godard. Eppure, la prima cosa che salta agli occhi vedendo Adieu au langage, è che Godard espelle la Storia. Da diversi anni il regista ha eliminato dai propri film la storia con la s minuscola, quella che ogni buon film deve raccontare e che si riassume in poche frasi. Più che eliminarla, l’ha progressivamente ridotta. A partire dal primo, Fino all’ultimo respiro passando per Je vous salue Marie e Nouvelle Vague, la storia con la s minuscola è sempre quella di una coppia di amanti, che si desiderano che si disprezzano. Ma, film dopo film, la narrazione viene spogliata fino all’osso. Cosa rimane in ultimo? Quasi nulla. Semplicemente l’idea di una coppia di amanti. Vale a dire quasi tutto. Un’immagine che, dalla Bibbia fino a Murnau a Godard stesso, rappresenta semplicemente la quasi totalità della storia dell’iconografica. Era quindi, quel dimagrimento della narrazione, un salto dalla storia alla Storia.

Questo saluto qui dura il tempo di una considerazione. Il regime hitleriano e quello televisivo sono nati lo stesso anno, il 1933. E un corollario: si può essere conquistati e conquistare politicamente il conquistatore, che fa eco al celebre adagio ciceroniano, Græcia capta ferum victorem cepit, et artes intulit agresti Latio. Poi il film prende la sua via. Ne consegue, appunto un’architettura nuova, con una parte, la Natura, che si ritrova ad essere sola e quindi a diventare il tutto, ad essere ripetuta, raddoppiata, triplicata: «Gli indiani per indicare il mondo usano la parola foresta». Ma la foresta è anche l’«Origine del mondo».

Non so se vivere o raccontare si chiede una delle giovani protagoniste. Se nel cinema esistono due tendenze, una al controllo delle immagini, una alla registrazione del mondo, che come destra e sinistra definiscono due campi opposti dove ogni regista pensa il proprio lavoro, Godard li ha sempre esplorati entrambi, radicalizzandoli, ma senza mai abbandonare l’uno per l’altro. Però: destra e sinistra hanno invertito il loro significato.

Dove si situano dunque le immagini? Quale il bordo che le delimita, e il fuoricampo che ne produce il senso? Nel suo film più straubiano, Godard, con semplicità tagliente fa i conti con i sentimenti del contemporaneo, e con il corpo a corpo di ogni immagine col mondo. La natura politica delle immagini che è in una nube o in uno scorcio di cielo, nella possibilità di ritrovare la lingua degli umani. Filmare tutto anche un piatto vuoto dopo la cena può dirci qualcosa? Il senso, la lingua (perduta) di un’immagine scorre tra vita e morte lucidamente emozionale.

Non si tratta di ciò che vediamo ma di ciò che non riusciamo a vedere, di cosa le immagini producono e non riproducono, la loro natura segreta – e invisibile, pensiamo al grido di Gianikian e Ricci Lucchi che chiude il loro Pays Barbare. Le immagini della guerra, ieri e oggi, come mostrarla vincendo l’anestesia della pietà, della vittima. Come filmare l’Africa? E dire l’Olocausto.

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Oggi le Rivoluzioni si filmano, producono migliaia di immagini, testimoni del loro essere e insieme narratori parzialissimi, una marea che travolge e cerca il suo punto di vista. Ma la rivoluzione non è forse nelle immagini stesse? Omaggio senza nostalgia al Sessantotto-colonna sonora «Oggi ho visto nel corteo tante facce sorridenti» – di cui ritesse i fili delle pulsioni intime di pensiero e sogni, Adieu au langage è insieme consapevole esibizione dello schiacciamento della Storia sulla Natura nella dimensione del 3D.

L’effetto si fa fatica a descriverlo a parole. Il 3D di Godard è piuttosto dolce. Diversa da tutto quello che si è visto finora – c’era da aspettarselo. Più che proiettarsi all’esterno dello schermo e aggredire lo spettatore, il rilievo sembra creare uno spazio interno, sdoppiare l’immagine aprendo una dimensione inesplorata e sconosciuta. In parte, questa camera ottica è ottenuta attraverso la sovrimpressione di due immagini in 3D che, proiettandosi l’una dentro l’altra, creano una nuova dimensione, sospesa tra due mondi. È in questa dimensione che abita la coppia del film, che anch’essa si sdoppia, replicandosi nell’identico.

Una delle chiavi del film, Godard l’ha lasciata in una videolettera, disponibile sul sito del festival di Cannes, indirizzata ieri al direttore e al presidente, per spiegare il motivo per cui non è venuto a salire i «24 scalini» del tappeto rosso di «Khan». Godard «scrive» in grande, su una massa di vacche allo stato brado: «selezione naturale». Il riferimento è alla selezione ufficiale del concorso… Ma anche al discorso sulla posterità televisiva della politica hitleriana, presente in Adieu au Langage. Non a caso uno dei libri che il film mostra è di Emmanuel Levinas, che nella Filosofia dell’Hitlerismo spiega la relazione perversa tra natura e politica. Nel momento in cui il destino politico diventa destino genetico, la selezione naturale prende il posto della dialettica politica.

È chiaro che il linguaggio televisivo è il migliore alfiere di quest’ideologia del corpo dominante. A questo linguaggio, Godard suggerisce di dire addio. Ma il suo film, che finisce su una nota positiva (un doppio vagito innocente, quello di un bambino e del cane) è un modo per dirci, sulle note di una canzone di lotta, che un altro linguaggio è possibile: «insieme vinceremo».