Ekuko Yokohama è una donna coraggiosa e determinata che non ha mai avuto paura, solo dolore. La sua memoria è densa di ricordi apocalittici scanditi dal tempo in cui, in quel terribile 11 marzo 2011, era appesa ad una fune e si calava dall’elicottero della protezione civile giapponese per salvare come poteva le vite e recuperare i corpi dei bambini strappati via dalla violenza del mare.

«Ci sono state sei onde, la seconda e la terza erano alte almeno 23 metri, c’era un muro nero che avanzava verso di noi e con il mare ci venivano addosso navi, macerie. Ero legata ad una corda, e tra un’onda e l’altra cercavo di salvare le vite. Ma la forza del mare era troppo potente, ho visto nell’acqua la mano di un bambino che cercava aiuto, ho cercato in tutti i modi di prenderlo ma poi ho dovuto lasciar andar via quella mano», si ferma, chiude gli occhi e piange.

Ekuko racconta la sua esperienza dal palco del caffè letterario di via Ostiense ad un piccolo gruppo di amici e di sostenitori della sua causa. Ha 38 anni, viene da Soma, una piccola città a 40 km dalla centrale nucleare di Fukushima, si occupa per l’organizzazione non governativa Aar Japan dei bambini sopravvissuti alla tragedia nucleare e cerca sostegno e aiuto per andare avanti nella sua missione umanitaria: trovare la giusta cura e sostenere i bambini sfuggiti allo tsunami e colpiti dalle radiazioni dell’esplosione nucleare. «Sono venuta per ringraziarvi, per il vostro aiuto e per i fondi che ci hanno permesso di sopravvivere.

Siamo rimasti per due settimane senza soccorso, non potrò mai dimenticare la bontà della fetta di pane che ho mangiato grazie ai vostri aiuti venuti dall’Italia – racconta Ekuko – dopo l’esplosione nucleare, ci hanno evacuati in una zona e ci hanno trattato come alieni, contaminati, non c’era nessuno che ci volesse aiutare, ci sentivamo abbandonati; per 4 mesi senza medicine, non c’è stata assistenza sanitaria e poi sono arrivati con montagne di medicinali, psicofarmaci per farci dimenticare. Quasi il 90 % degli abitanti è stato sedato da questi psicofarmaci», dice l’ex riservista dell’esercito militare giapponese.

«Il trauma è stato talmente forte che molti ancora oggi a due anni dallo tsunami e dall’esplosione nucleare non riescono a dormire senza sonniferi, si rifiutano di pensare al pericolo delle radiazioni, preferiscono cancellare tutto e hanno ormai acquisito dipendenza da questi tranquillizzanti. Adesso circa il 60% dei giapponesi che vivono nella zona prende psicofarmaci e stiamo cercando di farli smettere», racconta Ekuko Yokohama. «Il problema – racconta poi in privato la giovane volontaria – è che sono tutti assuefatti, anestetizzati. Non è più neanche rassegnazione, è qualcosa di più grave; i bambini escono a giocare, non vogliono più pensarci ai rischi delle radiazioni, si mangia il pesce correndo il rischio di essere contaminati dentro».

«Le decontaminazioni – incalza Ekuko – così come sono fatte non servono a nulla, spostare i sacchetti di terra da un punto all’altro non serve e neanche i controlli medici hanno un senso». Perché? «Io perdevo i capelli, sudavo in continuazione, avevo delle macchie sulla pelle, perdevo sangue dal naso e non mi sono servite le analisi fatte a Soma. Non ci sono i macchinari adeguati per fare le analisi. Sono dovuta andare a mie spese in un laboratorio speciale di Hiroshima e lì hanno scoperto che la mia tiroide non funzionava più. Adesso sono costretta a prendere medicinali per tutta la vita». Quindi è ancora pericoloso vivere lì? «Si, è sempre pericoloso, le radiazioni sono elevate, superano i livelli regolari e già 12 bambini si sono ammalati di cancro alla tiroide nella regione di Fukushima. Hanno quello che si chiama l’anello di Chernobyl».

Ma il peggio sembra non avere fine in questa testimonianza che lascia una traccia molto dolorosa nell’animo di chi l’ascolta. «È impossibile risolvere la situazione, ho verificato con i miei occhi le informazioni sui reattori nucleari, ho parlato con gli esperti della Tepco, sono entrata nella centrale: questa è una contaminazione interna. Alcuni bambini sono nati morti, sui neonati sono apparse macchie, ci sono malformazioni ambientali; ci sono farfalle con le ali asimmetriche, uccelli con malformazioni al becco». Ma perché non andate via? «Ci dicono che non ci sono rischi, io ho spesso il desiderio di andarmene ma se vado via io chi farebbe il mio lavoro? Non ho paura di morire». E conclude in privato: «Alla prossima esplosione me ne vado».

Eh già, perché secondo le informazioni di Ekuko, il reattore 1 non è ancora stabilizzato e nel reattore 3 non c’è la piscina di raffreddamento funzionante come affermano. Il 4 reattore che alimenta la zona invece funziona. Ma alla prossima scossa che succederà? In Giappone – conclude l’ex riservista dell’esercito – tutti i reattori si trovano su una faglia sismica. E lei – da ex-riservista – sa.