Il presidente venezuelano Nicolás Maduro e altri membri del suo gabinetto sono stati accusati mercoledì di «perpetrare crimini contro l’umanità» da uno speciale team delle Nazioni unite, che peraltro non ha mai messo piede in Venezuela. Il rapporto li accusa di aver dato di fatto il via libera a esecuzioni arbitrarie, torture e sparizioni.

Il ministro degli Esteri Jorge Arreaza ha rifiutato le conclusioni di un rapporto «pieno di falsità» attuato «da una missione fantasma controllata da governi subordinati a Washington». Il presidente Maduro afferma che gli Usa vogliono usare la leva dei diritti umani per abbattere il governo bolivariano con un intervento armato. I disastri provocati dall’uso bellico di tali diritti è sotto gli occhi di tutti, dalla «guerra umanitaria» in Kosovo, all’attuale situazione in Siria e Libia.

È da anni ormai che la crisi del Venezuela ha assunto una dimensione drammatica, con scontri di strada sanguinosi – le tristemente note guarimbas – e sfiorando almeno un paio di volte la guerra civile; con tentativi di colpo di stato e di una – fallita – incursione di mercenari organizzati negli Usa per assassinare il presidente eletto Maduro. Ma vi sono anche decine di migliaia di vittime dovute alla scarsezza di generi di prima necessità, medicinali compresi, che sono da addebitare soprattutto alla guerra economica scatenata dall’amministrazione Trump con il preciso scopo di provocare la caduta del governo bolivariano.

Per parafrasare Mao non si è trattato, nè si tratta di «un pranzo di gala». Le responsabilità del governo, che possiede le strutture di forza e di repressione, sono, è vero, ben maggiori: l’uso di tali strutture per sistematiche esecuzioni arbitrarie, sparizioni e torture è da condannare senza mezzi termini. Ma in questo caso, e in una situazione di estrema polarizzazione della società venezuelana, è difficile riconoscere i segni di quella «indipendenza» vantata dal team Onu, che non ha usufruito e valutato alcuna informazione del governo. Il precedente del rapporto sulle armi di distruzioni di massa che servì a scatenare la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein è un monito da tener presente.

La preparazione di un intervento – diretto o indiretto – contro il governo bolivariano sarebbe, secondo alcuni analisti, lo scopo della missione di Mike Pompeo nella regione. Da Boa Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima confinante col Venezuela, il segretario di Stato Usa e il capo della diplomazia brasiliana Ernesto Arraújo giovedì hanno pronosticato una «prossima caduta del governo di Maduro». Caduta che da tempo Donald Trump e il suo collega brasiliano Jair Bolsonaro stanno programmando, su tutti i fronti, politico (isolamento nel sub continente e a livello internazionale), economico e anche militare con infiltrazioni di commando, senza escludere un’azione militare prima delle elezioni presidenziali Usa.

 

Venerdì 18 settembre 2020. Il ministro degli Esteri brasiliano Ernesto Araujo riceve in mimetica il segretario di Stato americano Mike Pompeo nella base aerea di Boa Vista, al confine con il Venezuela (Ap)

 

Sono piani che hanno l’attiva collaborazione della Colombia dove venerdì Pompeo ha ribadito che «Maduro deve andarsene». E infatti il presidente colombiano Iván Duque col lancio – a metà agosto – dell’iniziativa «Colombia Cresce» – prevede nuovi accordi con gli Usa, che già possiedono 9 basi militari in territorio colombiano, a conferma il ruolo della Colombia «come piattaforma per destabilizzare il paese bolivariano e il suo legittimo governo», secondo quanto scrive l’ex senatrice e attivista colombiana per i diritti umani Piedad Córdoba.
Bolsonaro e Duque affermano all’unisono di agire per «garantire la democrazia» in Venezuela. Ma senza averne assolutamente le credenziali. Il primo per aver di fatto permesso – se non favorito – l’espandersi del Covid-19 nel suo paese (4,5 milioni di contagiati, 136.000 morti), secondo Frei Betto anche allo scopo di eliminare indios, afrodiscendenti e sottoproletari, ritenuti un peso per i paese; il secondo per il triste record di massacri di ex guerriglieri e leader sociali in Colombia.

A livello interno, il rapporto Onu infligge un duro colpo alle elezioni politiche venezuelane, programmate per il 6 dicembre, come via principale per giungere a una soluzione negoziata della crisi. Le trattative tra governo e una parte dell’opposizione durano da mesi, ma nelle settimane scorse hanno avuto un’accelerazione con la decisione di Henrique Capriles di parteciparvi dopo che il presidente Maduro ha concesso l’indulto a 110 oppositori. Capriles ha rotto il nocciolo duro dell’opposizione, il cosiddetto G4 – Voluntad popular, Primero Justicia (guidata da Capriles), Acción democratica e Un nuevo tiempo – che predica il boicottaggio delle «elezioni farsa» indette da Maduro.

Il fronte dei duri era già incrinato: centinaia di quadri intermedi dell’opposizione si erano dimostrati attratti dalla possibilità di entrare nel nuovo Parlamento (i seggi in ballo sono stati aumentati all’uopo di un centinaio). Ma soprattutto la scelta del boicottaggio voluta dal presidente autoproclamato Juan Guaidó è contestata da Leopoldo López (Voluntad popular) e da Maria Corina Machado. Entrambi hanno apertamente accusato Guaidó di «aver fallito» nella missione affidatagli di abbattere il governo. Il primo sostiene che «astenersi non basta» e sembra voler programmare nuove guerriglie di strada. La seconda chiede apertamente un intervento esterno.

Forte del rapporto dell’Onu, Guaidó tenta ora di riprendere le redini dell’opposizione ribadendo il boicottaggio delle elezioni ma anche rivolgendo un appello (l’ennesimo) ai militari perché si ribellino a un governo accusato di crimini contro i diritti umani. Nemmeno il suo principale padrino – la Casa bianca – sembra interessato a rilanciarlo. Pompeo e gli altri falchi dell’Amministrazione Trump sembrano puntare su posizioni più dure, di López o della Machado. E l’Ue, che aveva favorito le trattative tra governo e una parte dell’opposizione, ha ingranato la marcia indietro e ora ritiene (Josep Borrell) che in Venezuela «non vi siano le condizioni per un processo elettorale trasparente».