Fra i commenti letti sull’omicidio di Sara Di Pietrantonio, la studentessa romana strangolata e bruciata dall’ex fidanzato, uno mi ha colpito più di altri. E’ quello di P., uomo 40enne, che su un social network ha scritto: «Dopo lunga riflessione, volevo ribadire che neanche con l’esercizio di tutta l’autocritica possibile e immaginabile sono arrivato al punto di sentirmi personalmente responsabile né come essere umano, né come soggetto di sesso maschio, né come uomo bianco appartenente alla cultura occidentale dominante, né come abitante del nord Italia, né come blogger, della morte di Sara». La lapidaria risposta di un’amica gli ha tolto la maschera dell’ipocrisia: «Allora a posto così amici. P. non c’entra e quindi non parlatene con lui».

A parte che un’excusatio non petita nasconde sempre un po’ di coda di paglia, l’ autoassoluzione di P. svela la montagna ancora da scalare per non vedere certi numeri. Secondo Telefono Rosa, da inizio anno in Italia sono 59 le donne uccise da partner o ex, ed è un conto che non considera vessazioni e violenze che ancora molte subiscono.

Il modo in cui si concepiscono le relazioni nasce dall’educazione ricevuta, dagli esempi che si hanno e dall’aria che si respira in una società. Se questi tre elementi non sanzionano il concetto di possesso e potere di un individuo su un altro, crescere senza pregiudizi di genere chiede un lavoro molto lungo e difficile, e non è detto che riesca.
Come madre di un maschio 26enne, fin dalla sua nascita mi sono posta il problema di come renderlo immune dalle zavorre mentali che per secoli hanno regolato il rapporto uomo/donna. All’epoca mi sembrò un lavoro facile, credevo che la mia determinazione sarebbe bastata. Mi accorsi ben presto che avevo peccato di presunzione.

Sulla strada c’erano molti più ostacoli di quanto pensassi. I discorsi, i commenti, gli atteggiamenti, il linguaggio che mio figlio sentiva in giro, a scuola, fra i vicini di casa, nella pubblicità, alla televisione, insomma tutto ciò che chiamiamo cultura sociale erano come un’idra. Tagliavo un pregiudizio, ne rispuntavano sette.
Una delle prime cose che imparò all’asilo fu dividere il mondo in maschi e femmine, i giochi da maschio e quelli da femmina, i mestieri delle mamme e quelli dei papà, i ruoli delle prime e quelli dei secondi. A tre anni, vedendo la copertina di un Espresso con una donna discinta, lo sentii dire: «Però, che tette ha questa qua». Come faceva un bambino così piccolo ad avere già un giudizio estetico su dei seni?

Ma il disastro fu alle scuole medie, quando cominciò a dividere le ragazze fra quelle che ci stanno e quelle no. Aveva assorbito dai compagni l’idea che le donne si distinguono in facili e no. Altro che risolto, mi sembrava di aver allevato un talebano.
Poi il tempo, le discussioni, le liti, le esperienze hanno fatto il loro lavoro, ma il luogo comune è sempre in agguato. Se i bambini vivessero in una società libera da linguaggi e giudizi machisti, se sentissero padri, fratelli, zii, amici condannare il più piccolo gesto di violenza su una donna, se bevessero insieme al latte materno l’idea che l’amore non è possesso, sarebbe più difficile per un 27enne pensare che se una ragazza ti lascia non ha più il diritto di vivere.

E poi vorrei dire a P. una cosa. Io mi sono un po’ stufata che siano quasi sempre le donne a mobilitarsi per prime. Noi il nostro lavoro di emancipazione lo abbiamo cominciato molto tempo fa. Sarebbe ora che anche i maschi ne parlassero fra loro e di più. In certi casi dire solo «Io non ho colpa» non basta per nulla. Quindi, caro P., la cosa ti riguarda eccome.

mariangela.mianiti@gmail.com