Osserviamo a sinistra una cultura e un immaginario sessista che, sommersi ma mai realmente messi in discussione, emergono nello scambio quotidiano, nella reazione in rete, nella polemica accesa.

La rete è lo spazio dell’eccesso, dell’indignazione che si trasforma in invettiva, delle polarizzazioni polemiche incapaci di ascolto. E dell’insulto. Ma il dato interessante è che qui emerge una cultura. Per mostrare la forza della propria indignazione cosa ci può essere di più forte che l’augurio di uno stupro? Il paradosso è quando lo stupro è invocato, proprio contro donne che abbiano espresso dichiarazioni razziste o discriminatorie. In nome del politicamente corretto emerge il politicamente indecente mai rimosso. E così scopriamo che a sinistra sono diffusi e sotterranei sentimenti omofobi e sessisti.
Chi augura a una leghista, come punizione per le sue dichiarazioni razziste, di trovarsi chiusa in un recinto con quattro negroni assatanati, (i neri si trovano nei recinti? Sono più dotati dei bianchi e più sessualmente affamati?). Chi si augura, pur con esplicito intento paradossale, che l’atleta russa che aveva difeso le leggi di Putin di contro l’omosessualità, venisse stuprata in piazza (in piazza è più grave che in una stradina buia). Lo stupro è dunque percepito come una punizione, un dispositivo di controllo e disciplinamento: il modo per “dare una lezione”.

Verrebbe da chiedersi: sono così inconsapevoli? Non si rendono conto di quello che dicono? Ma fuori da Facebook si possono trovare continue conferme di questa cultura: un “leader” dei centri sociali romani che in assemblea azzittisce le donne che lo contestano chiamandole «galline», un’associazione di ciclisti e pedoni che per promuovere il limite dei trenta km orari in città inventa l’eroe Capitan trenta che ottiene, come premio per la sua lotta contro le auto, la disponibilità sessuale della donna a cui salva i figli dell’incidente stradale. E lei scopre che il nome non era riferito al limite di velocità ma alle dimensioni virili dell’eroe.
Due uomini in rete non fanno una tendenza. Ma si potrebbe continuare all’infinito: con la campagna delle pari opportunità a Bolzano contro il bullismo in cui si associa all’uomo l’immagine di una grande banana e al bullo un baccello di pisello rinsecchito: un atto di bullismo istituzionale con immagini di Oliviero Toscani. Paradossalmente la punizione contro bulli, violenti, razzisti e omofobi , l’arma considerata più efficace è proprio l’atto sessuale percepito come atto di dominio e di annichilimento.

Potremmo ricordare gli insulti sessisti contro la ministra Gelmini nel movimento degli studenti. Ci scopriamo agiti da un immaginario sessuale segnato dalla violenza e dal dominio. D’altronde il modo più diffuso in ogni scuola ma non solo, per insultare una donna è ancora definirla prostituta, o dedita a vari atti sessuali con uomini, e per insultare un uomo se ne ipotizza l’omosessualità: essere penetrati significa perdere dignità e soggettività.

Sembra già di sentire chi legge: «Si tratta di battute. Non si può continuamente vigilare moralisticamente sul linguaggio, le invettive sono per loro natura volgari e trasgrediscono alle regole del politicamente corretto». Un po’ come la risposta di Berlusconi e della sua corte ai critici: siete ipocriti e moralisti. E comunque sono stato frainteso. Ma non si tratta di una trasgressione: della volgarità come rottura dei canoni perbenisti e del moralismo, ma al contrario, della conferma, forse sguaiata e smodata di un sistema che ordina rigidamente i corpi, i desideri, i ruoli e le attitudini a cui conformarsi. Ogni insulto agisce come dispositivo di disciplinamento per tutti e tutte: ci ricorda le conseguenze per chi non corrisponde ai modelli della virilità obbligatoria e della femminilità oblativa, seduttiva o accogliente che sia. Proprio perché si tratta non di espressioni trasgressive quanto di versioni aggiornate di modelli tradizionali a poco serve un richiamo “moralistico”. Regge il politicamente corretto contro il politicamente indecente? È possibile fare appello alla virtù maschile dell’autocontrollo (si desidera ma non si fa, si pensa ma non si dice)? Non è proprio in base a questo valore che si afferma una gerarchia tra donne e uomini? Uomini portatori di una sessualità bulimica ma anche capaci di dominare i propri istinti, donne preda delle proprie emozioni ma il cui desiderio e socialmente rimosso in nome di una sessualità oblativa e subordinata.

La domanda che mi viene è: ma agli uomini non sta stretto questo universo in cui le donne sono un premio (non ci scelgono per il proprio desiderio ma vanno conquistate con potere, denaro o successo), in cui il nostro sesso è rappresentato come un dispositivo di potere o di punizione o peggio di degradazione dell’altra/o, in cui la nostra sessualità è schiacciata dall’ansia della prestazione e la nostra libertà continuamente minacciata nella precarietà della virilità e dall’ansia omofoba? La libertà delle donne, il diritto di cittadinanza di una sessualità e un’affettività non esclusivamente eterosessuale appaiono inscindibili dalla libertà di tutti e tutte.

La sessualità e l’immaginario si mostrano come questione politica dirimente e rimossa. È possibile una sinistra che non riconosca che il linguaggio, le forme delle relazioni e i ruoli sociali connessi con la sessualità rivelano e riproducono un sistema di potere pervasivo? Non è possibile uscire dal berlusconismo senza riuscire un’idea della libertà diversa dal consumo autistico e dall’arbitrio. La radicalità non si misura dai decibel con cui si urla l’indignazione ma dalla capacità di esprimere un’alterità a un simbolico e un immaginario di dominio che ci attraversa. Il conflitto da mettere in gioco non è solo con l’avversario ma deve fare i conti con il berlusconismo (e non solo) dentro di noi.