Da tempo Le Monnier, editore fiorentino, ora assorbito da Mondadori Education, va proponendo studi e lavori, firmati da giovani studiosi, dedicati alla storia contemporanea. Si tratta della felice scelta di privilegiare nuovi punti di vista, non necessariamente depositari della memoria delle esperienze delle generazioni precedenti, come neanche a esse strettamente debitrici.
D’altro canto, la storiografia italiana deve confrontarsi con il mutamento di statuto che le trasformazioni di questi decenni hanno ingenerato nella società, riflettendosi sull’operato delle nuove leve di studiosi, così come sulle condizioni e sulle risorse alle quali debbono ricorrere per darsi voce e ottenere ascolto. Fare storia implica l’acquisire la capacità di raccontare anche la propria di storia, situandosi nel divenire del tempo e dei luoghi in cui si opera e dei quali, quindi, si intende fare un resoconto critico.

A TALE RIGUARDO, nella collana «Quaderni di storia», fondata più di cinquant’anni fa da Giovanni Spadolini e ora diretta da Fulvio Cammarano, stanno uscendo volumi degni di interesse e ricchi di spunti di riflessione. Tra di essi si segnala l’ampio testo di Marco Bernardi dedicato a Quando la storia diventa storie. La società italiana e la comunicazione di fascismo e Resistenza tra gli anni Settanta e gli anni Duemila (Le Monnier, pp. 471, euro 34).

Titolo e sottotitolo identificano ed esplicano già da sé il corposo campo di riflessioni. Il fuoco dell’elaborazione è la ricezione collettiva, filtrata attraverso il campo della comunicazione pubblica, istituzionale e non, dei temi legati alla lotta di Liberazione e alla dittatura fascista. Come tale, il volume si propone al lettore anche nella sua natura di indagine, di sintesi e di bilancio sull’antifascismo italiano, dall’intensa stagione dei movimenti a oggi.

LA QUANTITÀ DI FONTI utilizzate, così come la loro intelligente interpolazione, ci restituiscono l’ampia struttura del dibattito, del confronto e delle contrapposizioni che hanno accompagnato la questione delle fondamenta dell’identità italiana in età repubblicana e costituzionale. Poiché la declinazione sul rapporto tra eredità della Resistenza, persistenza e metamorfosi dello spettro fascista e forme della loro espressione pubblica, rimanda ai modi in cui si intende la politica e si vive la socialità nell’Italia di oggi.

BERNARDI USA due registri prevalenti: quello del formarsi e del diffondersi della modalità della public history e il linguaggio che, di stagione in stagione, si è affermato come prevalente. Con efficacia, ancorché a rischio di alcuni schematismi minori, che forse avrebbero meritato di essere sciolti in una resocontazione a tratti meno rigida, l’autore ci restituisce comunque la visione del laboratorio storico come di un campo di conflitti tra narrazioni distinte, politicamente (e poi anche istituzionalmente) contrapposte.

La questione dell’egemonia sul senso comune è quindi il precipitato di tutto il testo, il punto sul quale si misura la «storia del fare storia» in questi decenni.

L’AUTORE DELINEA una complessa parabola che non può essere racchiusa in un’unica cifra, chiamando in causa non solo contenuti ma soprattutto le modalità di rappresentazione del passato. Insieme a esse, il rimando è ai contentori, poiché i legami con le memorie dei trascorsi sono sempre più spesso giocati sulla natura dei medium di trasmissione e sul tipo di «narrazioni» che questi prediligono. Prima ancora che una lunga svolta politica, quello che emerge dalla lettura delle dense pagine del libro è quindi il senso di un radicale mutamento cognitivo, che riguarda un’intera collettività e non solo gli studiosi. I quali, per parte loro, hanno misurato un crescente isolamento ed una perdita di autorevolezza, surclassati dalla proliferazione di sollecitazioni, sospese tra la pseudomemorialistica, la ridondante richiesta di «pacificazioni», l’effetto di eterna equivalenza (e quindi di assoluta intercambiabilità) dei resoconti, lo schiacciamento sulla versione del presente, ossia sulle occorrenze retoriche del momento, laddove il «presentismo» è oramai inteso come unica condizione temporale (ed esistenziale) possibile.

LA NOZIONE STESSA di fonte, in questa proliferazione anarcoide delle voci, è andata snaturandosi. Ma anche il modo di vivere e considerare, nella coscienza collettiva, la funzione del discorso pubblico, sempre più spesso ricondotto alle esigenze individuali e narcisistiche. Più che la crisi dell’antifascismo, evidentemente più volte consumatasi dal dopoguerra a oggi, emerge allora l’affaticamento della democrazia in quanto tale.
Un varco formidabile per quelle forze politiche «anti-antifasciste», che uniscono vittimismo, autoindulgenza ed esaltazione dell’asocialità come tratto della loro controproposta antiriformista.