Esito di un lavoro di ricerca a più voci, Transizioni e cesure di una modernità incompiuta. Tracce di senso in tempo di crisi. Studi su Badiou, Florenskij, Hegel, Italian Theory, Laclau, Marx, Nietzsche, Sloterdijk (Mimesis, pp. 286, euro 24) raccoglie una serie di contributi seminariali sullo stato presente della critica filosofica e culturale, per la cura di Giulia Gamba, Giuseppe Molinari, Matteo Settura e Massimo Coccorese. Il lungo sottotitolo riflette il carattere rapsodico dell’iniziativa – patrocinata dall’Associazione culturale Odradek XXI – e restituisce, nello stesso tempo, la ricchezza dei contributi.

UNA TALE MOLTEPLICITÀ di spunti stimola in chi legge una sensazione ben precisa: il bisogno odierno di una mappa orientativa che non escluda netti giudizi di merito. Nessuno degli autori – Alessandro Bellan, Dario Consoli, Pierpaolo Cesaroni, Augusto Mazzoni, Dario Gentili, Pietro Zanelli, Rino Genovese, Stefano Petrucciani, Carlo Gentili, Gherardo Ugolini, Giuliano Campioni e i già citati Molinari e Settura – si tira indietro di fronte alla necessità di esplicitare le proprie preferenze teoriche, ambendo ad allestire un vitale conflitto delle interpretazioni.

SE DUE SONO, in buona sostanza, le grandi direttrici del pensiero critico moderno – da un lato Marx e dall’altro Nietzsche – verso cui occorre guardare, merito del volume è di sondare la loro mutazione e la loro eredità nel panorama contemporaneo, soffermandosi, per fare solo un esempio, su alcuni protagonisti dell’attuale fase filosofica (Badiou, Laclau, Sloterdijk), non senza trascurare temi più specifici, oggi in agenda per qualsivoglia teoria critica del presente (penso alla scritto di Genovese sulla violenza).
Il saggio di Bellan introduce con grande chiarezza le questioni in campo e segnala lo spirito dell’intero libro. Lo si legge anche con un certo trasporto, dal momento che è l’ultimo scritto dello studioso, scomparso prematuramente nel 2014. La critica nell’epoca dell’alienazione felice ha il merito di elencare con profondità le ragioni della posta in gioco.
Per Bellan, che rilegge la lezione di Kant e di Hegel, la critica non può condannarsi all’isolamento e a una pretenziosa autonomia, deve piuttosto afferrare a un tempo sia l’oggetto d’analisi sia i suoi presupposti di ragionamento, secondo l’idea di un «doppio passo» in virtù del quale «essa è capace di vedere insieme identità e alterità senza isolare l’una dall’altra».

IL MODELLO DIALETTICO, che per Bellan nutre il discorso filosofico della modernità, è, in tal senso, un effettivo aprirsi all’altro, nelle forme di una consapevolezza sempre vigile della propria parzialità: la critica rende evidente questa costitutiva scissione e la amplifica, anche nei termini di una adorniana dissonanza (purché politicamente prolifica). Ma tale approccio, sostiene lo studioso, non ha trovato in Italia un contesto adatto al suo sviluppo.
Nel nostro paese, in cui «facciamo fatica a recepire un discorso sulla critica come fondamento della democrazia», è stato allora più semplice accogliere filosofie «adattive», pienamente inserite nell’ordine postmoderno (liberale e nichilistico nello stesso tempo).

LA CRISI del pensiero dialettico poggia anche su questo deficit, che Bellan coglie nell’assenza totale di una riflessione sulla fondazione stessa del punto di vista critico. Cosicché, a suo parere, si diffondono contenitori di opposizione filosofica solo apparentemente contrastivi, tesi a riempire, in modo tuttavia assai sterile, questo vuoto dialettico: una linea di derivazione heideggeriana «che non ammette più la trasformabilità dell’esistente, ma preferisce accettare il legno storto dell’umanità come un destino ineluttabile»; una componente che fa riferimento a Foucault e al nesso archeologia-genealogia, che riduce la critica a segnalazione delle pratiche di assoggettamento; una variante decostruttiva ed ermeneutica che risolve il pensiero in un gioco linguistico, spesso ironico (qui Bellan colloca anche Zizek).

A QUESTI TRE FILONI, per così dire, maggioritari, Bellan contrappone la ripresa di temi hegeliani («riconoscimento» in testa) da parte di Honneth, che ha consentito «il riavvio di una diagnosi delle patologie sociali e della ragione, un’indagine empirica sulle sofferenze sociali, e una ripresa dell’idea di critica sociale», una cui considerazione nel nostro paese sembra farsi lentamente strada.