Il licenziamento dell’intera compagine musicale (orchestra e coro) dell’Opera di Roma sta creando un gran clamore sui media di tutto il mondo e, malgrado il ministro della cultura Dario Franceschini e Ignazio Marino parlino di una normale procedura, si tratta di un fatto senza precedenti, che rischia di destabilizzare il già precario stato delle nostre attività culturali. La decisione risale al 2 ottobre, la scelta è stata definita come «sofferta». Sofferenza forse intensa, ma breve: in tre ore circa la direzione del teatro, il sindaco Marino e il Cda, l’organo di controllo e indirizzo, senza realmente vagliare altre ipotesi, hanno deciso di fare terra bruciata del cuore di ogni teatro d’opera, vale a dire i suoi complessi musicali, nascondendosi dietro la ambigua formula di una «esternalizzazione».

A questo esito a dir poco sconcertante si è arrivati dopo un lungo braccio di ferro tra il soprintendente Carlo Fuortes e i sindacati Fials e Cgil cui è iscritta la maggioranza dei musicisti del teatro. Nonostante un pogrom mediatico senza precedenti si sia abbattuto sui musicisti accusati di difendere privilegi, nodo del contendere non erano presunte indennità ma il piano di risanamento presentato da Fuortes e che, secondo i sindacati, era vago e privo di basi. Nella lunga lettera del 6 ottobre con cui avvia il licenziamento collettivo dei suoi 180 musicisti (88 del coro e 92 dell’orchestra), Fuortes spiega la scelta adducendo motivi economici.

Si legge infatti che a causa di «numerosi scioperi» (per la verità 4) e a seguito del repentino abbandono di Riccardo Muti del teatro nella stagione 2014-15, si è verificato un «incalcolabile» danno all’immagine del teatro, quindi le stime degli introiti formulate da Fuortes nel bilancio previsionale per il 2015 dell’Opera devono essere riviste al ribasso. Secondo la vulgata, l’abbandono di Muti sarebbe stato causato dagli scioperi, mentre il direttore d’orchestra ha addotto solo la mancanza di tranquillità in teatro che può avere le cause più diverse. Ma il comportamento di Muti lascia interdetti: il musicista non si discute, ma non è certo impeccabile abbandonare in una situazione di emergenza il teatro in cui si è lavorato per otto anni, e con un preavviso di appena due mesi sull’inaugurazione di una stagione costruita attorno ai due titoli che lo stesso Muti avrebbe dovuto dirigere.

Il «danno di immagine incalcolabile» denunciato da Fuortes avrebbe causato un ammanco di circa 4,250 milioni di euro nel prossimo 2015, da suddividersi in 1,5 di mancati ricavi tra biglietti e abbonamenti, 2,4 di sponsorizzazioni e altri contributi, più altri 700 mila tra Stato e Provincia. A eccezione della Camera di Commercio che non ha rinnovato il suo contributo di circa 1 milione di euro, le altre perdite in realtà ridimensionano la crescita stimata dallo stesso Fuortes nel suo piano. Non è la prima volta che una previsione di un teatro d’opera all’atto pratico sia rivista al ribasso: occorre infatti ricordare che Fuortes, subentrato a dicembre scorso, ha trovato l’Opera in una situazione disastrosa. La precedente direzione voluta dall’allora sindaco Alemanno, con Catello De Martino soprintendente e Bruno Vespa vicepresidente, aveva presentato un preventivo 2013 in pareggio. Invece a conti fatti il risultato è stato un devastante passivo di 12,9 milioni, causa principale della attuale situazione.

Lo stesso Fuortes tuttavia aveva mostrato analogo ottimismo come commissario straordinario al Petruzzelli di Bari: dopo aver «risanato» il teatro con fondi straordinari, lo ha lasciato a fine 2013 in «equilibrio» economico presentando un preventivo 2014 in pareggio, mentre la direzione subentrata in corso di stagione ha accusato 2 milioni di passivo, tant’è che a Bari sono stati annullati due titoli. Lo scollamento tra preventivo e consuntivo è purtroppo prassi normale nei teatri d’opera italiani (raramente negli stranieri), imputabile ai management non ai musicisti. Sempre nella lettera di Fuortes del 6 ottobre si legge che «I risparmi economici, indispensabili per la tenuta dei bilanci futuri, non possono ottenersi se non andando a incidere sulle due aree funzionali – l’orchestra e il coro – che hanno un impatto maggiore sul costo del lavoro»: costo attuale 12 milioni di euro l’anno, rispetto ai quali la esternalizzazione porterebbe un risparmio di 3,5.

Le cifre a disposizione dicono che la spesa complessiva per il personale dell’ente si aggira intorno ai 30 milioni di euro, e se i musicisti ne costerebbero 12, è azzardato definirli il maggiore impatto economico. L’organico totale lascia ulteriori perplessità: troviamo un numero piuttosto alto di amministrativi, oltre 80, nonché una cospicua schiera di tecnici, circa 150, cui aggiungere 15 maestri sostituti e 12 ballerini per un totale di circa 460 persone. Emerge che i 180 musicisti licenziati sono molto meno della metà del personale.

In questi anni di crisi molti teatri italiani e stranieri hanno compiuto delle esternalizzazioni, ma nei settori amministrativi e tecnici, mai in quello artistico. Questo perché nella cultura oltre all’impatto economico esistono altri fattori di importanza eguale se non superiore: ciò che rende unici teatri come l’Opèra di Parigi, l’Unter den Linden di Berlino, il Covent Garden di Londra, il Semperoper di Dresda e il Mariinskij di Pietroburgo sono i complessi artistici musicali. Non sorprende che sovrintendenti e grandi orchestre internazionali tra cui i Berliner, abbiano stigmatizzato questo licenziamento. I nostri legislatori del resto, quando istituirono gli Enti lirici, cioè i teatri d’opera d’importanza nazionale successivamente trasformati in Fondazioni lirico-sinfoniche, stabilirono che dovessero avere delle masse artistiche stabili. Licenziando orchestra e coro l’Opera di Roma si declassa da teatro nazionale a teatro di tradizione, vale a dire municipale.

Va aggiunto che, visti i finanziamenti pubblici di cui gode, l’Opera di Roma è da decenni al di sotto delle aspettative minime, ancor più da un punto di vista culturale che economico o produttivo: i sindacati tutti, non solo Fials e Cgil, a questa situazione non si sono del resto mai opposti, dando l’impressione di adeguarsi, e talvolta perfino sfruttarla. La responsabilità ricade sulle passate direzioni, ma anche sulle amministrazioni (Comune, Regione e Ministero), che negli ultimi decenni hanno preferito abbandonare questo teatro, come altri teatri, alla deriva. Ora questo licenziamento rischia di apparire non l’inizio di un cambiamento, ma una ritorsione punitiva contro i musicisti, ovvero la parte più cosciente e colta nel teatro.

Per capire la gravità della situazione occorre infine contestualizzarla: cinque anni fa erano attive nella capitale 5 orchestre (Santa Cecilia, Opera di Roma, Orchestra regionale di Roma e del Lazio, Roma Sinfonietta e la Sinfonica Romana delle Fondazione Roma). Ognuna aveva una sua stagione più o meno ambiziosa: con il licenziamento delle compagini dell’OdR, ne sopravvivono appena 2, Santa Cecilia che ha le sue stagioni, e la Roma Sinfonietta che una stagione non la ha più. Il ripiegamento culturale risulta tanto più evidente perché riguarda tutti i settori dei beni e delle attività culturali romani (si pensi ai molti teatri chiusi o sull’orlo della chiusura). Una situazione le cui cause non saranno tutte da imputare alla attuale giunta comunale capitolina, che tuttavia non ha dato segno di comprendere l’emergenza, o di avere i mezzi, non solo economici, per affrontarla. Intanto la trattativa prosegue, e dopo un incontro interlocutorio la scorsa settimana, le parti – sindacati, sovrintendenza e ministero, si rivedranno il 3 novembre.