È un atlante delle emozioni questo ambiguo Atlas des Kommunismus, per il quale si potrebbe con qualche ragione rovesciare uno slogan di anni lontani, diceva che il personale è politico. Per dire quanto invece una scelta politica, e il contesto in cui si è realizzata, abbiano pesato nella vita delle donne che sono protagoniste dello spettacolo di Lola Arias visto all’Arena del Sole. Donne di età diverse. Esperienze di vita altrettanto diverse, accomunate dall’esser maturate tutte nella Ddr, la ex repubblica democratica tedesca. A loro volta tutte ex qualcosa.

Argentina, poco più di quarant’anni, Arias è performer e scrittrice oltre che regista, alle spalle anche una collaborazione con Stefan Kaegi, uno degli artefici del collettivo Rimini Protokoll. Imprinting che spiega forse la scelta di un teatro che con molta approssimazione viene definito documentario e appare ormai diventato un genere, e tuttavia non banalmente riducibile alla dimensione del politicamente corretto. Vuol dire cercare nella realtà le storie che oggi vale la pena raccontare. E portarle sulla scena con chi le ha vissute.

Con tutti gli slittamenti che ciò comporta, dalla decostruzione della memoria personale al formarsi di una narrazione collettiva. Qui lo spunto è fornito dall’ottantenne Solomea, ebrea tedesca emigrata da bambina in Australia con la famiglia per fuggire il nazionalsocialismo montante e tornata per partecipare alla costruzione del socialismo, fino a trasformarsi in informatrice della Stasi, i servizi di sicurezza della Germania orientale che tante storie hanno dato al cinema. Capace di giustificare anche il muro che aveva diviso la città di Berlino, prima di rendersi conto di vivere in uno stato di polizia.

C’è un labile muro anche sulla scena di Atlas des Kommunismus. Una barriera tessile che sale e scende a dividere lo spazio scenico, una pedana posta a mezzo fra due contrapposte gradinate a dividere anche il pubblico, e diventa lo schermo dove si proietta in tempo reale quello che avviene dall’altra parte. Insieme a Solomea sono subito salite in scena le altre. C’è quella che nella Ddr faceva l’interprete e racconta il proprio spaesamento nel momento in cui si trovò a tradurre la conferenza stampa in cui un confuso funzionario annunciava l’immediata apertura delle frontiere.

C’è l’attrice del Maxim Gorki Theater berlinese che sta sul viale Unter den Linden. La vietnamita arrivata giovanissima come «lavoratrice ospite» e finita a lavare i piatti in una condizione di quasi schiavitù. E la cantante di una band punk fatalmente destinata a scontrarsi col potere. Memorie divise. Come quelle squadernate in Schubladen da un altro collettivo tutto femminile, si è chiamato She She Pop. Ognuna di loro porta un proprio pezzo, un tassello del complicato mosaico tedesco-orientale. La marcia dei giovani pionieri. Una canzone di Wolf Biermann, il poeta privato della cittadinanza per aver criticato la Ddr durante un concerto. E poi reperti fotografici. Un brano di commedia. Altre canzoni. Potrebbe prevalere l’amaro sentimento di una sconfitta. In fondo, sconfitte lo sono tutte, queste donne. Non si è detto però di un’altra presenza, una bambina di nove o dieci anni che, ci dice, la parola «comunismo» l’ha sentita per la prima volta durante questo spettacolo. Ed è l’irrompere di un altro sguardo che, posto di fronte a quel che forse le appare un lontano «paese delle meraviglie», apre a un’idea di futuro.