«Meglio un uovo oggi che una gallina domani». Puoi pensarla così, anche se sei stato l’«hombre del partido» e hai vinto un Mondiale e poi un Pallone d’oro, come naturale conseguenza di un trionfo inatteso e meritato. Sai accontentarti anche se sei stato l’italiano più famoso degli anni Ottanta. «Meglio un uovo oggi che una gallina domani» Paolo Rossi lo aveva scritto anche su WhatsApp e quella frase racconta il suo profilo nazionale e popolare, ma anche qualcosa di più.

PABLITO era il simbolo di un calcio che sapeva accontentarsi. E diventò l’eroe di un’Italia che guardava al futuro con fiducia, ma senza avidità. La cupidigia divenne il motivo dominante della grande crisi, del riflusso iniziato negli anni Duemila.

Quel calcio e quell’Italia non esistono più, da un pezzo.
Paolo Rossi aveva occhi vivaci e profondi, un sorriso generoso, mai sfacciato. È morto a 64 anni, lo ha ucciso un cancro ai polmoni scoperto un anno fa e combattuto in silenzio. «Tranquilli, ho solo un problema a una gamba», era la sua “finta” per proteggere Maria Vittoria e Sofia Elena, le sue figlie più piccole, undici e otto anni.

Quando mercoledì notte Pablito se n’è andato un’intera generazione di italiani ha scoperto di aver perso un pezzo di felicità. Lui e i suoi amici unirono un Paese fatto a pezzi da trame, misteri, bombe, piombo, terrore. Non finì tutto in quelle notti di festa, ma le sue braccia alzate dopo il terzo gol al Brasile (5 luglio 1982) rappresentano per molti un manifesto con su scritto: gli anni Ottanta sono iniziati.

IN QUEL MOMENTO nessuno aveva la stessa popolarità globale di Pablito e non fu complicato capire perché: era un uomo che aveva sbagliato qualche mossa, aveva pagato in silenzio ed era tornato per abbattere un gol dopo l’altro due potenze del calcio come Brasile e Germania Ovest, sbarazzandosi nell’«intervallo» della Polonia di Papa Wojtyla. Quelli che adesso hanno mezzo secolo di vita ricordano più o meno tutto di quell’estate: le prime televisioni a colori, certi succhi di frutta in cartone inventati dal signor Parmalat e troppo buoni per essere veri, l’esordio dei gadget tricolore allegati in fretta ai settimanali dopo il trionfo dell’11 luglio contro i tedeschi.

L’Italia che vinse quel Mondiale in Spagna era fatta di amici che resteranno uniti per sempre, anche per questo oggi il dolore ammutolisce uomini come Dino Zoff, Marco Tardelli, Antonio Cabrini. Era una squadra fortissima, perché calciatori come Tardelli, Beppe Bergomi o Bruno Conti (solo per citarne alcuni) farebbero ancora e sempre la differenza.

Basterebbe allenare il loro fisico come si fa oggi. E, sempre per voler parlare di pallone, Paolo Rossi giocò probabilmente nella Juventus più forte di sempre, quella della stagione 1982 e 1983. Con lui scendevano in campo non solo gli azzurri campioni del mondo, ma pure il geniale Michel Platini (arrivato quarto con la Francia) e l’istrionico fuoriclasse Zibì Boniek, terzo ai Mondiali con la Polonia.

Erano notti, maglie, volti che sembravano naturali e in buona misura lo erano davvero. Erano uomini che sapevano emozionare perché si emozionavano. In una delle sue prime interviste post mondiale, Pablito dichiarerà: «Mi sembra di toccare il dito con un cielo». Molti anni dopo confesserà: «Come mi sentivo dopo il Mondiale? Pensavo di essere il primo uomo sulla Luna».

Ma la verità resta un’altra, ci portò tutti sulla Luna. E per chi sapeva ancora accontentarsi fu davvero un viaggio bellissimo.