Dopo le elezioni del febbraio 2013 ho sentito una deputata del Pd imputare lo scarso risultato elettorale al fatto che il partito non avesse saputo parlare alla pancia degli Italiani. È una immagine molto misera delle persone, ma i tratti del linguaggio sono sempre significativi e non ci si deve sottrarre a quello che ci dicono, per quanto triste e spiacevole sia o ci appaia.

In effetti, nel corso del tempo che ci separa dalla seconda guerra mondiale (che per l’Italia è stato il tempo della democrazia fondata sui partiti) sono diventati solidi, quasi tattili e certo distintamente udibili aspetti e componenti ambigui e problematici delle forme politiche contemporanee che, sebbene taluni li avessero precocissimamente compresi, descritti e denunciati, sono rimasti ai margini della riflessione intellettuale, e del discorso pubblico.

Nel 1951, il filosofo del diritto Giuseppe Capograssi si chiedeva che cosa è questa democrazia che costruiamo? Possiamo fingere, scriveva Capograssi, che essa affondi le radici in un terreno solido e fertile che si è conservato per miracolo, ma essa non può non nascere, anche, da ciò che è accaduto e ciò che è accaduto è la perdita del valore dell’esistenza individuale e la riduzione della persona a «pura potenza obbedenziale» buona, da allora in poi, per la fabbrica, il consumo, il consenso, così come, all’occorrenza, per il campo di concentramento e la deportazione. Improntato alla collettivizzazione e idolatra dello «scopo», il disciplinamento moderno e contemporaneo per funzionare deve negare in primo luogo a ciascun individuo il diritto a ricercare una sua trascendenza, una sua strada di libertà, e dunque il sacro (Capograssi era un cattolico, e ben venga). Su queste basi antropologiche, le democrazie contemporanee potevano andare in tante direzioni, non tutte belle. Allora bisognava soffermarsi a pensarci, ma non c’è stato mica tempo, e soprattutto spazio, per il pensiero.

Nel 1964, Marcuse, ne L’uomo a una dimensione, descrisse i meccanismi della globalizzazione (la società della mobilitazione totale in cui «la produzione e la distribuzione di massa reclamano l’individuo intero, e la psicologia industriale ha da tempo smesso di essere confinata alla fabbrica») come una forma di dominazione che si afferma mediante una trasformazione dei linguaggi, dei modi di pensare e rappresentare la realtà. Qui prendono il sopravvento le forme piatte e operazionali di un discorso puramente empirico, descrittivo di fatti, di operazioni «oggettive», teso cioè ad eliminare tutte le idee vaghe e indeterminate, come quelle coagulate da parole come Giustizia, Pace, Libertà, Verità; qui hanno spazio e accoglienza solo le formule brevi, definitorie, elementari, immediatamente comprensibili, «esatte».

È un linguaggio che insegna alle persone che tutte le cose che non possono essere descritte «esattamente e in breve» non esistono e non servono a niente; che esilia la memoria, dove abitano discorsi per definizione lunghi, che confrontano, rimembrano, riconsiderano, rimettono in rapporto il presente con il passato aprendo lo scarto transitivo tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. «Il “discorso alla mano” scriveva Marcuse – è essenziale perché esclude sin dall’inizio il vocabolario intellettualistico della “metafisica”: esso milita contro il non conformismo intelligente e mette in ridicolo le teste d’uovo. Purtroppo, questo linguaggio è anche il segno di una falsa concretezza, è un linguaggio purgato dei mezzi per esprimere un qualsiasi contenuto diverso da quello già fornito agli individui dalla società in cui vivono».  

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Sappiamo che cos’è, è il linguaggio del tweet: siamo stati avvertiti con cinquant’anni d’anticipo, eppure è accaduto. Evidentemente non era per aiutarci a pensare che i partiti stavano lì. Allora torna a mente la questione morale. Quando la mise a fuoco nel 1975, Pierpaolo Pasolini non la fece consistere – come vuole una vulgata che risale anche alla pur degnissima figura di Enrico Berlinguer – nella mancanza di una politica onesta e cioè non ladra o meno ladra di quella fatta da altro partito, ma nel regime di menzogna e mistificazione con cui i partiti – tutti – avevano costruito il loro rapporto con la società italiana. Questa era ormai laicizzata, urbanizzata, consumistica e postfordista (diremmo oggi): ma la Dc restava il partito dei cattolici, il Pci il partito delle masse operaie. Al posto della società italiana in cambiamento il discorso politico metteva stereotipi, che sono in effetti scorciatoie del linguaggio e tagliole del pensiero, e molto acuminati strumenti di potere: di un potere paternalistico (e lo ebbe ben chiaro il femminismo italiano della differenza, che per mettere al mondo quel che non c’era, ossia la libertà femminile, si mise ben discosto dalla politica dei partiti) che può portare la barba, ma anche i tacchi, e continua a idolatrare il Progresso, la Modernizzazione e la Riforma, e a diffidare pervicacemente del mutamento, lo ignora e ne reseca la pensabilità, cominciando con chiamare «pancia» i desideri, i bisogni, l’intelligenza delle persone e il loro giudizio.

«Ma naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla», ha scritto il poeta. Ed è questo ciò che manca.