Dai luoghi più fotografati in questi ultimi giorni, le banlieues dell’Europa del nord, con i suoi caseggiati spogli e i suoi abitanti sotto osservazione arriva nelle sale Asphalte (è il titolo originale, a Cannes in proiezione speciale fuori concorso), una salutare evasione dalla commedia italiana e dalla cronaca, un film di emozioni distillate, potente antidoto al clima di terrore. Quali misteri può racchiudere un condominio anonimo? Parecchi, assicura il regista e autore dei racconti su cui è sviluppata la sceneggiatura («1er étage face ascenseur» e «12eme étage face ascenseur», pubblicati in Italia da Neri Pozza raccolti in «Cronache dell’asfalto»). Il nonsense degli avvenimenti o meglio il senso dell’assurdo che caratterizza le situazioni lo collocano in una sfera di umorismo nordico che bene si addice al cielo plumbeo dell’Alsazia, dove il film è stato girato. Chi ama Kaurismaki si troverà a suo agio, anche se lo sguardo è meno metafisico.

Si parte dalla tipica scusa dell’inquilino del primo piano che non vuole pagare la sua quota per il nuovo ascensore perché lui «va a piedi», ma il fato vuole che si trovi ben presto su una sedia a rotelle e finisce per uscire solo di notte quando nessuno lo vede usare l’ascensore. Nel condominio, a dispetto del richiamo alla solidarietà, ognuno è solo, una solitudine che ciascuno si trova a superare in modo tra il disperato, la casualità e la situazione paradossale, con diversi gradi di umorismo mescolato a piccole dosi di sentimento.

Mentre il ragazzino spia l’arrivo della nuova inquilina dirimpettaia di pianerottolo, una strana forma di casco spaziale appare come una frazione di Gravity, una bolla raggelata di un George Clooney nello spazio. Infatti da un’altra dimensione (quella di Bernardo Bertolucci di Dreamers?) esce dalla navicella spaziale Michael Pitt in tuta completa da astronauta piombato sul tetto del caseggiato, costretto a trovare rifugio presso la casalinga algerina (Tassadit Mandi che esordì nell’emblematico La crisi! di Coline Serrau) dell’ultimo piano, su ordine della Nasa che non vuole rendere noto l’anomalo atterraggio. Pur senza comprendersi i due si trovano seduti sul divano a commentare le soap opera in tv (e Pitt è stato tra l’altro in quindici puntate di Dawson Creek).

Finge di essere un fotografo internazionale l’invalido che si spinge fino al vicino ospedale per procurarsi qualche pacchetto di patatine alla macchinetta automatica quando incontra l’infermiera di notte nella sua pausa sigaretta (Valeria Bruni Tedeschi) e riesuma nelle notti successive un apparecchio polaroid e un flash a cubo per essere più credibile. La parte sarebbe doveva essere di Jean-Louis Trintignant se non si fosse ritirato per motivi di salute e nei panni del bisbetico Sternkowitz c’è Gustave Kervern.

La ruvidezza del suo personaggio è bilanciata dalla soave personalità del giovane Charly (Jules Benchetrit, figlio del regista e della povera Marie Trintignant). Incuriosito dalla vicina, un’attrice dei tempi passati (Isabelle Huppert) di cui scopre i vecchi film in vhs da lei interpretati in un bianco e nero incomprensibile alle nuove generazioni, insieme alle fotografie di scena (e riappare anche in una foto come merlettaia, era il ’76). Tra i due si compone una struggente scena in cui è ricostruito l’amore materno, pur se non manca l’elemento paradossale, la prova per una nuova audizione, del dialogo tra Nerone e Agrippina, come a smorzare ogni pur velato riferimento biografico, dare una sterzata alle lacrime.