Quattro anni ci sono voluti al Teatro alla Scala a mettere in scena per intero Der Ring des Nibelungen (in co-produzione con la Staaatsoper di Berlino e il Toneehuils di Antwerpen), in vista del bicentenario della nascita di Wagner: Das Rheingold e Die Walküre nel 2010, Siegfried nel 2012 e Götterdämmerung nel 2013. In ossequio allo spirito wagneriano, che realizzò il sogno della prima esecuzione integrale del Ring nel 1876, tra il 17 e il 22 giugno scorsi le quattro opere sono andate in scena una dietro l’altra (stasera l’ultima replica), con la direzione di Daniel Barenboim, regia di Guy Cassiers, scene dello stesso e di Enrico Bagnoli, costumi di Tim van Steenbergen, videoinstallazioni di Arjen Klerkx e Kurt D’Haeseleer, coreografie di Sidi Larbi Cherkaoui. «Non vedo l’ora di poter vedere tutto assieme il Ring – ha dichiarato Cassiers – per scoprire insieme agli spettatori quanto la nostra trama scenica, fatta di gesti, luci e forme, dialoghi col fitto reticolo di leitmotiv proposti dalla musica di Wagner».

Il suo allestimento ambienta la vicenda in una terra post-industriale in cui si possono ancora intuire i segni dell’azione umana, in un’atmosfera che «non è quella di un’origine mitica del mondo ma della sua fine storica», dove l’immobilità della materia organica e inorganica che occupa la superficie del palco (acqua in Rheingold, per lo più metallo nelle altre tre opere) dialoga con la mobilità fragile dei corpi e con la virtualità delle retroproiezioni sul fondale.

«È un muro di corpi che rappresenta la lussuria e la crudeltà, simboli di creazione e distruzione», riproduzione di un bassorilievo dello scultore belga Jef Lambeaux, Passions Humaines, che fa capolino in lontananza all’inizio di Rheingold e alla fine di Götterdämmerung scende come un sipario sul boccascena («Il mondo illusorio finalmente diventa mondo reale, e il titolo di Lambeaux riassume la forza totale e inarrestabile del vero protagonista del lungo poema wagneriano»). Immensa, molteplice, verbosa, ridondante, tenera, eroica, caleidoscopica, la tetralogia è una delle vette più alte del teatro musicale di tutti i tempi, sulla quale Barenboim si avventura riuscendo nell’impresa di mettere a fuoco la misura che pure c’è in questo universo drammaturgico-musicale apparentemente smisurato e allo stesso tempo di lasciar affiorare le sue infinite sfumature.

E soprattutto riuscendo nell’impresa titanica di movimentare e infuocare, quasi avvicinandola a Verdi, la sovrana indifferenza wagneriana per l’azione, il suo disegno geniale e cinico di rendere l’opera niente più (o niente meno) che sinfonismo in forma drammatica. Così liricizza la scena iniziale delle figlie del Reno o l’apparizione di Erda in Rheingold, le meno convincente delle quattro opere dal punto di vista scenico, complice anche un cast di cantanti non sempre a fuoco (da menzionare comunque il tonante Wotan di Michael Wolle, l’incisivo Alberich di Johannes Martin Kränzle, la lirica Freia di Anna Samuil). Poi esegue la tempesta iniziale, l’esplosione della primavera, l’incesto tra Siegmund e Sieglinde, la cavalcata delle valchirie e l’inizio del terzo atto di Walküre con piglio da fervido sinfonista, propenso a indugiare e a perdersi con Wagner nell’onnipotenza della musica, nella sua capacità di evocare tutto senza rappresentare direttamente nulla, e allo stesso tempo in grado di prestare attenzione alle esigenze delle voci, assecondato da un cast di cantanti di prim’ordine (la Sieglinde di Waltraud Meier e la Brünnhilde di Iréne Theorin).

Poi cesella le mille screziature dell’interludio che anticipa il duetto tra Brünnhilde e Siegfried in Siegfried: la trasparenza dei violini e dell’arpa per lo stupore generato dalla scoperta della bellezza, la concitazione del tema della gioia amorosa che evoca la paura finora ignota a Siegfried, lo sfavillante crescendo del saluto al mondo, la riottosa accettazione della condizione umana da parte di Brünnhilde sottolineata dai richiami degli archi cupi all’inquietudine di Wotan, le ondulazioni del tema della pace nell’idillio di Siegfried, l’energico «a due» della decisione d’amore (potente il Siegfried di Lance Ryan, che regge l’immane fatica fino alla fine, con La acuti voluminosi che oltrepassano lo spessore del suono orchestrale).
Infine con compiaciuta maestria dirige i momenti tradizionalmente più emozionanti di Götterdämmerung, come la Marcia funebre di Siegfried e il finale, anche se più di una volta gli ottoni suonano grevi e fuori fuoco: tutto viene raccontato attraverso gli occhi di Brunilde («martire e testimone di un mondo che ha rinunciato agli ideali per mantenere un potere che alla fine lo distruggerà»), ancora Iréne Theorin, potente, raffinata, praticamente inarrestabile.