Una mancanza che si sentiva da qualche anno, a Roma e non solo, quella di Alberto Arbasino. Mancava, non sostituito, il suo giudizio tagliente, ammantato di citazioni coltissime, su trionfi e sfracelli della cultura italiana, e delle sue protezioni amicali e politiche. È venuto a mancare il suo tratto geniale anche su questi ultimi governi pretenziosi e pasticcioni, sempre arbasinianamente sospesi tra l’opéra comique e il vaudeville, e qualche inane gesto da tardo impero, come il suo Supereliogabalo dalle troppe mamme tutte dallo stesso nome. Certo non era un estremista, almeno in politica, Arbasino, che si era concesso pure una annusata nelle istituzioni dietro la foglia d’edera Pri.

ERA ANZI BEN NATO a Voghera (di cui inventò, quasi a proprio contraltare, la celeberrima Casalinga che tutti citano senza neanche conoscerne i natali), e dopo la quadratura degli studi legali, a partire dal momento «magico» del boom tra i ’50 e i ’60 si era dato a quella che trovava la più raffinata e veritiera rappresentazione del mondo: opera, teatro, musica, cinema classico, di cui era conoscitore quasi maniacale. Fratelli d’Italia era Mameli ma anche Goethe, magari su una seicento. Attraverso quelle visioni decifrava il mondo, e lo riproponeva senza schermirsi troppo ai suoi lettori. Con i libri certo, e con i suoi articoli spesso chilometrici, cavalcate furiose attraverso i sipari, in città tanto diverse quanto lontane, dove lui frugava con cura, alla ricerca del nuovo e insieme alla denuncia del vecchio. Disegnando geografie del pensiero e dell’occhio solo all’apparenza improbabili, da Bayreuth a Glyndebourne, dall’Australia ai Legnanesi. Attraverso la visione indagava e raccontava il mondo. A cominciare dal suo perimetro natale, tra Le piccole vacanze e La bella di Lodi (con un regista teatralissimo come Mario Missiroli a fare cinema).

Ma per firmare un melodramma vero scelse come eroina Carmen a Bologna, consulente Roland Barthes, Gregotti per le scene e Giosetta Fioroni per i costumi. Assolutamente irrealizzabile oggi. Ma lui era già stato all’arrembaggio col Gruppo 63, skipper dispettoso di quella pirateria letteraria, e non perse l’occasione di altre sfide storiche. Le praticò tutte, dando per acquisite, nel suo raccontare, le trasformazioni dei costumi come dei valori. I suoi talk show tv fanno ancora epoca, e testo: Monicelli versus Nanni Moretti, Adriana Asti contro la Pampanini e le sue «coscette». Indimenticabile anche la canzone Ossigenarsi a Taranto, altro eroico hit nazionalpopolare, scritto per Laura Betti che nel suo romanzo Teta Veleta fece di lui la sua «Arbasia».

QUALUNQUE MEDIUM praticasse, lo intrigava. Ma ha continuato a privilegiare la scrittura, e anche la ri-scrittura degli stessi testi, passati così da Feltrinelli e Einaudi a tutto in Adelphi, e quindi l’opera omnia da Mondadori. Lingua e sapienza erano le sue coordinate infallibili. Un ultimo ricordo privato: sull’autobus M (anni luce dopo la rombante Porsche) di ritorno dall’Auditorium dopo un concerto eccelso di Cecilia Bartoli, l’analisi comparata su quegli stessi brani ascoltati da Elisabeth Schwarzkopf, 40 o 50 anni prima, calamitando in poche fermate l’attenzione di ascoltatori giovanissimi, improvvisamente tutti ammutoliti…