La silhouette di Pasolini, rosso su fondo verde, ha accompagnato le visioni del Fid Marseille 2013, il regista e scrittore italiano ne è infatti stato il nume tutelare ispirando gli itinerari intorno ai tre concorsi, internazionale, francese e opere prime. Una traccia sparpagliata anche nella città, tra i lavori in corso nella capitale europea della cultura, i nuovi musei freschi di apertura, e i progetti di recupero delle zone periferiche. Il motivo ricorrente in tutte queste trasformazioni è il Mediterraneo, ma non si tratta di sola retorica, Marsiglia è davvero un laboratorio attuale, e una memoria viva di conflitti e contraddizioni migranti e mediterranee.

Qui Marc Scialom ha ambientato il suo Lettre a la prison (mostrato dal Fid nel 2008), girato quasi clandestinamente con una macchina da presa prestata da Chris Marker. Ebreo di origini italiane, nato a Tunisi nel 1934, dopo le persecuzioni naziste nel ‘43 in Tunisia, Scialom si trasferisce in Francia e attraverso la sua esperienza racconta la violenza del colonialismo e il razzismo contro un esule arabo su suolo francese.

Oggi le ragazze giovani scelgono sempre più numerose di indossare lo hijab, e i ragazzi l’abito tradizionale islamico, tra le stradine che salgono dalla Canébiere, la strada che arriva fino al vecchio porto, si parla in arabo, l’Egitto è sugli schermi di tutte le tv sempre accese nei caffé poco turistici, e poco tirati a lucido dei vicoli intorno al mercato, the alla menta e odore di sigarette.

«Credo che il velo sia una questione identitaria, o forse un modo per proteggersi dagli uomini che sono sempre più aggressivi» dice Narimane Mari, regista di Loubia Hamra (Fagioli rossi) che ha vinto il primo premio nel concorso francese. Con un gruppo di ragazzini Narimane ha ripercorso la storia algerina, dalla guerra di indipendenza contro la Francia ad ora, gli anni recenti di massacri e la fuga oltre il mare: «Siamo come pesci» dicono lasciandosi galleggiare i bambini nel finale. E per indicare il presente si dipingono una barba: «Sono loro che lo hanno fatto, anche perché sanno molto di più di quello che accade adesso che della guerra di indipendenza» dice ancora la regista.

Loubia Hamra è un film di grande libertà, come Mille Soleils di Mati Diop che ha conquistato la giuria internazionale (Eija-Liisa Ahtila, Saodat Ismailova, Sven Augustinen, Lav Diaz, Matías Meyer)- bello che a vincere siano due giovani cineaste. Un viaggio attraverso il tempo e le culture e le identità anche quello che compie nel suo film Mati Diop sulle tracce di Touli Bouki, girato a Dakar dallo zio Dijbril Diop Mambety. Cosa resta di quell’irriverenza, delle domande, dei sogni di una generazione. Partire, rimanere, o magari cercare un vecchio amore tra le nevi dell’Alaska come nei sogni di Magaye Niang, protagonista di Touki Bouki e di Mille Soleils, che è un film appassionante sul presente ma senza mettere da parte le esperienze del passato, vissuti e immaginari di resistenza.

Che documentario ci ha raccontato questa edizione del Fid, un festival che rifiuta il «ghetto» del genere contaminando il documentario con la finzione e la ricerca di un’immagine «trasversale»? E da sempre, o almeno da quando alla direzione c’è Jean-Pierre Rehm, e prima che i crossover diventassero la «tendenza» un po’ fashion dei laboratori di supporto alle cinematografie indipendenti di tutto il mondo, con scelte che dichiarano prima di tutto un progetto, e un pensiero sulle immagini e gli immaginari. La scommessa è rischiosa, forse a volte comporta anche una chiusura (molti film sembravano rispondere più a una necessità teorica rimanendo imprigionati nel loro stesso proposito. Tra questi anche il premiato A film about a film not yer shot di Balagura, una sorta di appunti per un film possibile con divagazioni poco controllate), a diverse possibilità e a altre strade. Il rischio è però dichiarato, e con grande libertà, è un po’ l’utopia di questo festival che si traduce nell’atmosfera vitale in cui è immerso, pieno di gente come se avesse un alto budget (900mila euro), di film, di cura per coloro che vi partecipano organizzando luoghi e occasioni di incontro che di manifestazioni non gigantesche (tipo Cannes o Venezia) sono l’anima vitale.

L’ idea di lavorare su immagini che interrogano se stesse, alla ricerca di una nuova forma, e di un pensiero in cui tradurre il mondo, è stata un po’ la traccia dell’edizione appena chiusa, attraversando i terreni ambigui del presente, e della Storia, contro le iconografie scontate, le abitudini delle sguardo, le relazioni obbligate.
Fukushima è l’incubo ancora vivo, e spaventoso di un paese che Pihilippe Rouy ci mostra filmando le rovine a distanza di un anno in Machine to Machine. Dove riprendende il soggetto di un suo film precedente, 4 Batements face a la mer, per condurci in un paesaggio «post» che non trova ancora una forma. E che è stato messo da parte nel ritmo della normalità senza affrontare quanto quella catastrofe ha provocato, e continuerà a provocare nel futuro. Le immagini scendono nel cuore della centrale ripreso da robot che si muovono alla cieca, un’esplorazione meccanica (da macchina a macchina, appunto, ma ogni centimetro è impraticabile per l’uomo) che produce immagini caotiche, quasi un’allucinazione potente, inquietante, al cui interno lo sguardo umano non sembra quasi più possibile.

La guerra dell’ex Jugoslavia ci appare nel dispositivo costruito da Sarah Vanagt in Elevage de poussière, con l’ipocrisia (oscena) a cui tutti i paesi d’Europa hanno prestato opera, prima e dopo, cercando colpevoli che non possano metterne troppo in discussione le politiche. Vanagt lavora sui filmati del processo a Radovan Karadic, incriminato per genocidio e crimini di guerra, al tribunale internazionale dell’Aja. Testimoni protetti ripercorrono con voci distorte perché non si possano riconoscere la violenza delle fosse comuni a cui sono scampati, i periti mostrano i segni delle fosse poi fatte sparire, analizzano fotografie di corpi irriconoscibili e senza nome. La replica di Karadic, che si difende da solo, è atroce: negare ma anche azzerare queste e altre testimonianze producendo controprove dall’apparenza a loro volta efficace, con cui dire che il massacro di Srebenica è una invenzione dei musulmani e così l’assedio di Sarajevo e le migliaia di persone ammazzate nei campi. Come processare una Storia recente e cosa significa «giustizia»: la regista copre di volta in volta i visi sullo schermo del suo computer e gli oggetti all’interno del tribunale con dei foglietti, su cui passa una matita per cercare la polvere. Il processo è ancora in corso, e la memoria?

Elena Tikhonova e Dominik Sprintzendorfer, mischiano materiali d’archivio e interviste ripercorrono la storia della musica eletronica nell’Unione sovietica. Elektro Moskva comincia dal pensiero di Lenin su cosa doveva essere il comunismo, i soviet più l’elettrificazione del paese, l’utopia di una nazione modernizzata dalla scienza e dalla politica. Ed ecco poi le storie di Alexei Borisov, musicista e compositore underground, il destino straordinario di Leon Teremin, fisico, che nel 1919 inventa il Theremin, il primo strumento elettronico, e poi viene deportato in Siberia dove continuerà a fabbricare invenzioni per il Kgb. «L’ideale sarebbe arrivare a una terza via, tra il capitalismo e la follia russa» dice un giovane scienziato di oggi. La libertà è nella composizione stessa più che nel risultato musicale. La sfida del Fid, delle sue immagini, del corpo a corpo con la realtà.