La diffusione e la perdita di contenuti digitali personali nel maelstrom senza fine di internet è uno dei temi che sempre di più caratterizzano la nostra contemporaneità, nuove problematiche che il cinema, come le altre arti del resto, cerca di indagare ed esplorare. The Hungry Lion, attualmente nelle sale giapponesi, è in questo senso, anche al di là delle sue qualità prettamente estetiche, un lungometraggio molto importante che tocca dei nervi scoperti della società digitale in cui siamo immersi. Il film racconta con uno stile molto particolare e delle scelte estetiche non convenzionali, la storia di Hitomi, una studentessa al secondo anno delle scuole superiori che si ritrova vittima di false dicerie circolanti sui social network.

Un video a luci rosse girato da uno dei suoi professori, prontamente arrestato, vede infatti protagonista una ragazza di cui non si conosce il viso ma che un po’ tutti, tanto a scuola che in rete, dicono sia proprio Hitomi. Prima i compagni di classe, poi anche i vicini, le amiche e finanche il fidanzato cominciano ad evitare la giovane, che al contrario attira un gruppo di ragazzi sbandati interessati solo a fare sesso con lei. La madre e la sorella più giovane cercano di aiutarla, il padre non c’è, ma allo stesso tempo si preoccupano della brutta immagine che questa diceria sta gettando su tutta la famiglia. La stessa scuola, con ipocrite parole di circostanza, la invita a lasciare «per qualche tempo» gli studi affinché «possa riflettere», più preoccupata della rispettabilità dell’istituzione che del vero benessere della ragazza. In poco tempo quindi il mondo le si rivolta contro ed impreparata, come qualsiasi altra persona sarebbe nella sua posizione, cade in un vortice di disperazione. Scritto e diretto da Takaomi Ogata, il lungometraggio si presenta con uno stile molto asciutto, quasi da videocamera di sorveglianza, è infatti composto da brevi inquadrature statiche praticamente senza movimenti di camera. Molte di queste sono strettamente funzionali alla narrazione, altre invece sono quasi dei pillow shots a la Ozu dove non succede praticamente «niente». La relativa frammentazione di ciò che ci viene presentato è parallela alla parzialità di informazioni che di solito abbiamo quando leggiamo in rete o sui giornali e vediamo distrattamente in televisione i fatti di cronaca, senza avere cioè una conoscenza profonda e a 360 gradi delle vite delle persone coinvolte. Questo comporta spesse volte i facili giudizi e la creazione di dicerie o falsità riguardo a l’una o l’altra persona, e specialmente quando a circolare sono i video, ed è questa forse una delle novità e degli scarti che il nuovo millennio ha portato, ritornare indietro è quasi impossibile.

Come viene mostrato nella parte finale del film, quella in realtà meno riuscita perché un po’ troppo prevedibile, i mass media, particolarmente tv e social, creano spesso degli infiniti strati di false e tossiche narrazioni. Il problema del bullismo digitale non è certo una prerogativa giapponese, il fatto però che il sistema scolastico del paese asiatico impegni quantitativamente i suoi studenti per moltissime ore durante la settimana, anche lo sport e le varie attività collaterali vengono infatti svolte all’interno delle mura scolastiche, non offre ai ragazzi che non riescono ad integrarsi o a quelli vittime di bullismo, delle vie di fuga alternative. Per questo le problematiche sociali più complesse e quelle che affiorano nella contemporaneità giovanile, anche se presenti nel resto del mondo, sono più visibili ed evidenti nell’arcipelago giapponese.

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