Rivoluzione o panettone? Rivolta o shopping? Manifestazione o cenone? Queste sembrano essere oggi le alternative a Parigi, dove i trasporti continuano ad essere semiparalizzati ma tutto il resto funziona, in una atmosfera paradossale di negozi affollati e di levatacce all’alba per raggiungere il posto di lavoro. Scintillano le decorazioni natalizie ma occorrono due ore per attraversare la città a causa degli ingorghi del traffico.

Martedì scorso c’è stata una giornata di sciopero generale, e se ne annuncia un’altra per il 9 gennaio, ma le manifestazioni di decine o centinaia di migliaia di persone sembrano lasciare completamente indifferente il governo, apparentemente deciso a far approvare la sua controriforma delle pensioni, che eleverebbe l’età pensionabile a 64 anni e metterebbe fine ai trattamenti preferenziali di molte categorie, in particolare i ferrovieri e gli insegnanti.

La riforma è impopolare, due terzi dei francesi sono contrari secondo i sondaggi, ma parliamo di un paese dove il tasso di sindacalizzazione non ha mai superato il 25 per cento, nel 1946. Tra il 1978 e il 1990 il tasso di sindacalizzazione è passato dal 21 per cento all’8 facendo della Francia il paese meno sindacalizzato dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. 

È difficile, quindi, capire se la solidarietà dell’opinione pubblica sia destinata a durare o no, in particolare durante la feste. I sindacati francesi, molti e molto divisi tra loro, faticano a rappresentare l’universo del lavoro salariato e non sono in grado di organizzare le nuove forme di occupazione come i lavori digitali, il lavoro autonomo o quello delle piattaforme come Uber o simili: si tratta di lavoratori di fatto abbandonati a se stessi.
Per questo, l’anno scorso, il movimento dei gilet gialli, nato fuori e spesso contro i sindacati, ha avuto successo: era espressione di persone che si sentivano abbandonate e ignorate, per le quali le difficoltà economiche vere e proprie erano solo una parte del problema. In maggioranza non erano poveri ma temevano di diventarlo, una ex classe media che si sentiva mancare il terreno sotto i piedi e che soprattutto non vedeva prospettive per sé e per i figli nelle aree semiurbane o rurali da cui provenivano.

I gilet jaunes oggi stanno alla finestra, diffidenti nei confronti di sindacati che percepiscono come corporativi, oltre che troppo vicini alla politica e al potere.

I movimenti del 2018-19, sul piano storico, si collocano dentro una lunga tradizione francese di rivolte improvvise e violente, di movimenti che scoppiano all’improvviso, come quello che nel 1995 si oppose a un precedente tentativo di riforma delle pensioni da parte di un altro governo di centrodestra, quello di Alain Juppé, costretto alle dimissioni. Spesso si tratta di rivolte inaspettate, che partono da una categoria specifica ma che poi ricevono un forte sostegno anche dal resto della popolazione perché mettono in luce inquietudini e malesseri diffusi.

Ieri i gilet gialli e oggi i ferrovieri mostrano comunque una frattura sociale profondissima a cui Macron finora non ha voluto o saputo rispondere. Oggi nelle manifestazioni si vede soprattutto gente di mezza età: infermiere, insegnanti, ferrovieri costretti a lavorare molto più a lungo di quanto vorrebbero e che vedono allontanarsi l’età della pensione. Soprattutto, non percepiscono più un futuro decente, una vecchiaia tranquilla che lo stato sociale costruito nel dopoguerra sembrava poter garantire.

Sul tema delle pensioni questa rabbia potrebbe essere sconfitta ma il malessere resterebbe, e probabilmente troverebbe espressione in una marea elettorale contro Macron alle prossime presidenziali, tra due anni e mezzo.

Non dimentichiamoci che nel 2017 il presidente socialista uscente, François Hollande, ha addirittura rinunciato a presentarsi, tanto sapeva di essere impopolare.

Macron allora vinse perché Marine Le Pen era oggettivamente un candidato improbabile, che non poteva scrollarsi di dosso l’immagine del padre Jean-Marie, il fondatore del Front National, fascista e negazionista. L’attuale presidente aveva cavalcato il discredito del partito socialista (situazione peraltro comune agli altri partiti socialdemocratici europei) e con un’abile operazione di comunicazione all’inizio ha dato un’impressione di rinnovamento. In breve tempo, però, il suo governo è stato percepito dai cittadini per quello che era: un esecutivo di centrodestra, che si comportava esattamente come quelli precedenti, subalterni a una visione neoliberista dell’economia e dello stato. Non a caso come prima cosa ha abolito l’imposta sui grandi patrimoni, di cui i gilet gialli hanno invano chiesto la reintroduzione.

I blocchi sociali di opposizione a Macron sono quindi più di uno, per ora divisi tra loro: nelle urne del 2022, tuttavia, potrebbero unirsi attorno a un candidato qualsiasi, purché diverso dal presidente attuale. Il che significa, nella debolezza fatale della sinistra, che un candidato di estrema destra potrebbe essere il prossimo presidente francese.