Meglio non parlare sempre di notti magiche, perché poi la magia finisce, perché quella di 31 anni fa era tutta un’altra estate e a guardar bene Italia ’90 non fu neppure così indimenticabile. Allora servirebbe un ricordo più profondo, un amore curato, un guizzo.
Domani sera sarà un’altra storia, una finale Inghilterra-Italia non si era mai vista, né in eurovisione né in mondovisione.
La notte che ci aspetta sarà nuova, ma avrà volti antichi, le sue facce in prestito e il suo grande centro, i suoi colori. Sarà azzurra come il mare e la maglia dell’Italia. Bianca come la balena e la divisa dell’Inghilterra. Avrà i suoi protagonisti inaspettati, perché quelli della notte saltano sempre fuori all’improvviso. Uomini come Giorgio Chiellini o Harry Maguaire. Uno è detto il «Chiello», l’altro il Testone; il secondo soprannome è decisamente più bello del primo. Sono i centrali della finalissima, difensori, perno dell’ultima trincea. Per l’Italia i difensori previsti sono tre, quattro quelli dell’Inghilterra, chi ha passione per il calcio sa che di solito partono così.
I centrali illuminano, ma sono gente sottovalutata. Ed è un errore. Puoi far finta di dimenticarli, ma finisci sempre per fare i conti con loro. Sono come il caffè a colazione, sono grandi protagonisti, è storia. Fanno la differenza. Le facce di Chiellini e Maguaire le vedi in campo, ma anche sugli spalti. Volti da italiani, da inglesi. Facce imprestate, così comuni che faticherai a dimenticarle. Hanno tratti da vita agra, scavati, improponibili per certi profili social(mente) inutili. Sono bella gente, sull’isola come nel vecchio continente.

DOMANI SERA si giocano l’Europa. Accadde anche nel Sessantotto, a Roma. Quella volta l’Italia arrivò prima, in Europa non era ancora successo e fin qui non si è più ripetuto. L’Inghilterra finì terza, ma due anni prima, a Londra aveva vinto i Mondiali. Era l’Inghilterra di Jack Charlton, il grande centro, pure lui di Manchester, riva United, come «Testone» Maguaire.
Sono passati più di cinquant’anni, più o meno era quanto ti aspettavi di vivere nel Medioevo.
Quell’Italia del Sessantotto profumava di contestazione, quella finale contro la Jugoslavia non finiva mai, si giocò due volte. La semifinale con l’Unione Sovietica venne decisa con una monetina lanciata in aria: a guardarla oggi sembra l’immagine di un miracolo economico che stava ormai precipitando. Erano le notti azzurre dei gol di Pietro Anastasi e Gigi Riva, era l’Italia del capitano Giacinto Facchetti, figlio di ferroviere, nato terzino fluidificante, consacrato al grande centro come libero e stopper. Jack e Giacinto, facce che avevi voglia di chiedere in prestito. Se ne sono andati tutti. Facchetti ha lasciato il ricordo di un eroe borghese, chi ha vissuto e lavorato con lui continua ad amarlo. Ha lasciato anche quattro figli. Il più vecchio, Gianfelice, fa l’attore teatrale e il drammaturgo. È la sua arte, non è figlio d’arte. Del padre ha la grazia e la gentilezza, chi ha lavorato con lui sa di essere fortunato. Gianfelice ama scrivere di sport e di calcio. Non grida, non cerca effetti speciali, le sue storie hanno i colori di Desmond Morris e le note di Azzurro. Chi cerca un po’ d’estate ha bisogno anche di questo, di ricordi, dentro una radio, un campo, cinquant’anni dopo. E se domani sera sarà azzurro, poi sarebbe bello che un altro Facchetti raccontasse quella storia. Uno come Gianfelice, che quando racconta ascolta. Lasciamo da parte notti magiche senza magia, urlatori a spasso senza un bagaglio di parole. Lasciamo fare a chi mette il cuore al centro e prende solo in prestito i nostri ricordi.