Poche citazioni, soprattutto in nota, e in massima parte dopo il 1980. Prima in Francis Bacon. Logica della sensazione, poi in L’immagine-movimento, in Foucault, e infine ne La piega. Leibniz e il barocco. I testi richiamati: Il dubbio di Cézanne, Il cinema e la nuova psicologia, Fenomenologia della percezione e Il visibile e l’invisibile. A questo gramo sistema di corrispondenze è stato spesso ricondotto il rapporto di Gilles Deleuze con Maurice Merleau-Ponty. Anche perché i richiami alle opere di quest’ultimo si risolvono quasi sempre in poche battute: al sentire fenomenologico nel caso della pittura, alle condizioni naturali della percezione in quello del cinema, al superamento dell’intenzionalità secondo in Husserl tramite la piegatura dell’«essere» nel libro su Michel Foucault; e all’interpretazione della monade nella monografia leibniziana. In più, bisogna tenere conto che spesso questi richiami sono fatti per distanziarsi dalla concezione merleau-pontiana (pittura e cinema) o per apprezzarne di sfuggita il valore (monade e piega, su quest’ultima si era già espresso favorevolmente in un nota di Differenza e ripetizione). In base a questi indicatori è stato valutato come periferico il posto di Merleau-Ponty nella produzione deleuziana.

Tra dissonanze e risonanze

A scuotere questa consolidata certezza è venuto il volume 13 di «Chiasmi International» (Mimesis, pp. 569, euro 30), rivista dedicata allo studio dell’opera di Merleau-Ponty che presenta, in questo numero, il dossier «Merleau-Ponty e Deleuze: dissonanze e risonanze». Impreziosisce la raccolta di interventi, un brevissimo testo di Deleuze tratto da una lezione su Leibniz tenuta a Vincennes-Saint Denis il 20 gennaio del 1987, in cui il filosofo francese riassume la posizione di Merleau-Ponty rispetto ad Heidegger e alla monade leibniziana.
Lo scuotimento, però, è durato poco: né questa breve nota, né gli interventi – tanto quelli schierati a favore della dissonanza (quello di Pierre Rodrigo che lavora nella direzione dell’anti-fenomenologismo di Deleuze), quanto quelli favorevoli alla risonanza (quello di Claudio Rozzoni che sancisce l’alleanza tra i due filosofi in nome della comune lotta contro il cartesianesimo) – sono sufficienti a dimostrare la centralità di questo rapporto. La nota deleuziana, perché è un semplice sunto «didattico», non basta a fare assurgere Merleau-Ponty al rango di «intercessore» (alleato con cui pensare le questioni filosofiche) o di «oppositore» (di quelli del calibro di Hegel). Gli interventi, sia quando lo rifiutano che quando lo accettano, partono dal presupposto che per Deleuze il confronto con Merleau-Ponty sia decisivo. E così non è, gli indicatori testuali lo dimostrano.

Un discorso a parte merita l’intervento di Pierre Montebello perché dà vita ad un’operazione interpretativa molto interessante, questa sì capace di scuotere l’autore, consapevole tanto della scarsità dei riferimenti testuali su cui fondare il rapporto tra i due filosofi, quanto dell’antifenomenologismo di Deleuze, sposta il fuoco del conflitto altrove: «Deleuze ha chiaramente giocato Bergson contro Merleau-Ponty». La ragione di questa opposizione così radicale, a parere di Montebello, sta nel mondo in cui la fenomenologia pensa il rapporto mondo-soggetto, cioè un mondo prodotto dal soggetto, un mondo ancora troppo umano. A ciò Deleuze opporrebbe il soggetto bergsoniano come derivata del mondo, come «un caso della natura». È come se Montebello ci dicesse: buttate all’aria queste quattro note di Deleuze su Merleau-Ponty, non è lì che troverete le ragioni del conflitto, se questo c’è si gioca su di una posta più importante, l’interpretazione di Bergson.

Questo gesto teorico è importante per l’avanzamento che fa compiere agli studi deleuziani: si pensi che la «posta» Bergson non compare mai in La chair et le pli: Merleau-Ponty, Deleuze e la multivocità dell’essere (Mimesis, pp. 206, euro 16) di Nicolò Seggiaro.

Lo scuotimento suscitato dalla lettura del saggio di Montebello, però, deve essere usato in un’altra direzione: non in quella che decreterebbe ora la centralità del rapporto tra Deleuze e Merleau-Ponty mediata dal conflitto sull’interpretazione del bergsonismo, ma sulla complicità che attraverso l’opera di Bergson si crea tra i due autori.
Che non ci sia conflitto, ma complicità è presto dimostrato: nel 1956, sotto la direzione di Merleau-Ponty, esce il volume collettivo Le philosophes célèbres, la voce Bergson è scritta dal giovane Deleuze che punta la sua lettura sul concetto di intuizione come metodo dell’intera filosofia bergsoniana. Nel 1960 Merleau-Ponty, nel saggio Divenire di Bergson, rivendica l’intuizione come momento fondamentale della produzione teorica di Bergson a partire dal 1907. Nel 1966 esce Il bergsonismo di Deleuze che, in una nota, scrive: «Merleau-Ponty dimostra molto bene come, secondo Bergson, il tema della simultaneità conferma una vera filosofia della “coesistenza”».

Una tarda connessione

Questo insieme di riferimenti, se da un lato dimostra l’assenza di conflitto, dall’altro ha senso solo se la complicità che fonda ha una ricaduta sulla teoria sociale contemporanea.

Nella voce Bergson, Deleuze intende per coesistenza il coesistere, nella concezione del tempo di Bergson, del passato e del presente nella durata interiore del soggetto. Nel saggio Divenire di Bergson, questa coesistenza temporale viene trasformata da Merleau-Ponty nel reciproco percepirsi, intersecarsi e avvolgersi dell’insieme delle durate che sono tutti i soggetti. Quella che nel 1966 Deleuze definisce come filosofa della coesistenza in realtà è una sociologia dell’intersoggettività che, oggi come oggi, vuol dire un’unica cosa: le nostre esistenze individuali dipendono sempre più dalla «connessione» con quelle delle altre. La coesistenza, allora, diventa pienamente intellegibile attraverso l’attuale società delle reti.