Nella piccola o grande galassia dei libri dedicati agli oggetti, o alle cose, è comparso un nuovo puntino luminoso. Durante il Novecento questi ammassi stellari sembrano essersi formati coi più vari accenti e nelle più varie composizioni, dal surrealismo bretoniano alle visioni del quotidiano crepuscolare alle poetiche del ready made o dell’objet trouvé, e nei più vari campi di indagine umanistica (dalla sociologia alla semiotica) e scientifica (dallo studio della materia alla tecnologia); ha interessato tanto gli economisti quanto gli antropologi, aveva impegnato le preoccupazioni della sfera religiosa e morale così come quella dei filosofi, per non dire di campi di intrattenimento come l’arte e la letteratura, per le quali l’oggetto è sempre stato un problema da raccontare e mostrare. E che ormai gli oggetti stessi siano una galassia lo potrebbe suggerire uno qualsiasi dei vari Tutto che Alighiero Boetti fece tessere.
Il lumino questa volta si accende in quella porzione di cielo che grossomodo corrisponde allo spazio della psicologia; e non è la prima volta che psicologi, psicoanalisti e studiosi della mente in genere si occupano di questo argomento. Si tratta di un recente volumetto di Giovanni Starace dal titolo suggestivo e un po’ definitivo, Gli oggetti e la vita, uscito nella collana Saggine dell’editore romano Donzelli nel 2013 (pp.250, euro 17,50). Il libro, come anche mostra il sottotitolo quasi romanzesco, Riflessioni di un rigattiere dell’anima sulle cose possedute, le emozioni, la memoria, aggrega intorno a sé un largo insieme di casi sul rapporto che la psiche intrattiene con il mondo degli oggetti. Non gli oggetti in genere, bensì una loro classe particolare, che si potrebbe definire degli oggetti «personali» o «propri» o «d’affezione»; quelli insomma da mettere in relazione con un individuo strutturato secondo un qualche principio di identità. Ora, questo restringimento del campo materiale e prospettico è insieme il limite e la forza della lettura che propone Starace.
Ne è limite, perché è chiaro che la stragrande maggioranza degli oggetti conosciuti sono imposseduti o impossedibili. Non posseduti (e non tanto per dolorosa privazione), come quando si consideri un oggetto come le scarpe, di cui il mondo è pieno benché le mie scarpe siano diverse da ogni altra (e non entriamo nei particolari di questa specificità!); e non possedibili, come il traghetto o l’aereo che mi portano in vacanza, oggetti che sono di uso collettivo e che sono utilizzabili solo con la mediazione di competenze e capitali non miei. La maggioranza degli oggetti nella vita comune e nella vita in comune, cioè, hanno significato a partire da un valore impersonale e come tali vengono conosciuti e in gran misura anche percepiti; sotto tale profilo la percezione personale o possessiva è, in parte, la proiezione di quei significati sul sé. Sembra, questa appena formulata, un’obiezione. Ma la specificità del libro, si diceva, sta nell’invertire il punto di vista per interrogarsi su come l’oggetto venga investito di proiezioni emotive e memoriali personali, e infine delegato a contenere o a trasportare significati che hanno valore solo per il sé o a partire dal sé.
La prospettiva adottata sembrerebbe apertamente «clinica», dato che qui l’oggetto diventa una specie d’antenna, sensibile in fase di ricezione e attiva in fase di trasmissione. Seppure l’oggetto sia muto, suggerisce l’autore, a guardarlo bene (cioè anche ascoltando attentamente la mediazione narrativa che ne fa il proprietario) è in grado di raccontare molto del soggetto che lo possiede. Si può così parlare di «sguardo clinico», senza che questo modo di vedere l’oggetto debba accompagnarsi al riscontro o alla diagnosi di qualche patologia. Qualche caso, sì, tra quelli che Starace racconta come situazioni esemplari o esemplificative (o forse la maggioranza dei casi ma non si è stati lì a contarli) è legato a un momento di terapia o di cura di qualche soggetto, ma è ovvio che l’oggetto quasi mai è il problema. Piuttosto può diventarne il sintomo, quando si osservi e valuti l’atteggiamento che la persona intrattiene con le cose di cui si circonda; e per lo stesso motivo può invece diventare un semplice schermo sul quale guardare alle peculiarità che formano carattere e retaggio personali.
Questo va detto con chiarezza, altrimenti si potrebbe pensare che qui operi il preconcetto per cui ogni relazione con gli oggetti si accompagni a una sofferenza. In questo caso, forse, ci si potrebbe sentire incoraggiati a praticare la spoliazione da ogni oggetto, superfluo o no, sulle orme del saggio ma strano Diogene o del virtuoso ma non meno originale Francesco d’Assisi. No, il libro non è un corso, neppure involontario, di distacco dal mondo materiale. Semmai è una riflessione sul «costo» psichico dell’impegno affettivo, emotivo e cognitivo rivolto alla sfera dei beni materiali cui si attribuisce una contiguità esistenziale con la propria identità. E Starace qualche volta fa trasparire il proprio desiderio di fornire qualche spunto per armonizzare e come sdrammatizzare i momenti critici che si presentassero in quella relazione. Un maggior grado di consapevolezza può essere utile e benefica.

C’è tuttavia un cono d’ombra in cui la vita si nasconde insieme ai suoi oggetti d’affezione, ed è il pensiero della morte, cui il libro dedica una certa attenzione. Gli oggetti a volte sopravvivono ai loro proprietari, anzi quasi sempre durano più a lungo, materialmente, benché destituiti di quel valore specifico che posseggono «in vita»; a meno che non vengano adoperati come strumenti del ricordo delle persone che l’hanno possedute, allora si rivitalizzano perché trovano un nuovo impiego mnemonico. Il tema sembra di natura antropologica, dato che in tutte le epoche e società la persona è legata in vita e in morte agli oggetti che ha e che lascia. Pur ramificandosi in molte direzioni, non ultima quella degli assi ereditari, il legame tra oggetto e morte ha valore simbolico, cioè ha valore di scambio e di condivisione ed è per questo tramite della memoria.
Per questo, in effetti, e solo per questo sono importanti, sebbene in condizioni normali si preferisca rivestire gli oggetti del loro valore economico. Lo mostra un caso estremo, che può essere utile ricordare. Ne ha scritto il neuropsichiatra Daniel Levitin (Internazionale, n. 997). Venuto a sapere che un suo vecchio compagno di corso, Tom, a causa di un tumore al cervello aveva perso la memoria, pur non incontrandolo da molto tempo decide di fargli visita. Al termine di un’amichevole conversazione, nella quale Tom richiede molte notizie sul suo stesso passato che non è in grado di ricordare, pur non avendo riconosciuto Daniel gli propone comunque di portarsi via un oggetto qualsiasi che gli fosse piaciuto. Daniel gli fa presente che in questo modo chiunque avrebbe potuto approfittarne per sottrargli qualcosa, al che Tom commenta: «Va bene così. Sono solo cose».

Questo episodio non vuole funzionare da apologo. Ma che la memoria di sé e degli altri, la percezione della propria identità e il possesso di oggetti siano strettamente correlati, trasmette chissà perché una sensazione di precarietà ma anche di leggerezza per nulla sgradevoli.