La Palma d’oro a La vie d’Adèle di Abdellatif Kechiche corona un’edizione del festival di Cannes dominata in tutte le sezioni da una massiccia presenza francese, che Spielberg e i «suoi» giurati – Nicole Kidman, Ang Lee, Cristian Mungiu, Christoph Waltz, Naomi Kawase, Vidka Balan, Lynne Ramsay,Daniel Auteuil – come sottolineato nel discorso del presidente, sembrano così voler mettere al sicuro da qualsiasi «minaccia». E non tanto quella «convenzione collettiva» proposta dal governo Hollande, un minimo sindacale del salario per le maestranze cinematografiche – proprio il film di Kechiche (4 milioni di budget) è stato oggetto di proteste da parte di chi ci ha lavorato per lo scarso rispetto di orari e paghe – ma soprattutto quell’eccezione culturale che Bruxelles vorrebbe riesaminare. E che invece, come è capitato di leggere da qualche parte, a proposito ancora del film di Kechiche, non solo permette una produzione florida nella quantità ma anche una perfetta integrazione, tanto che un franco-tunisino vince persino la Palma d’oro. E se poi i cineasti più indipendenti nella pratica dell’immaginario vengono messi ai margini, pazienza, l’immagine della globalizzazione deve essere un’altra, provocatoria ma con morbidezza.

La Francia è anche la Palma a Berenice Bejo, la diva di The Artist (Oscar 2012), protagonista del film di Farhadi Le Passè, che è stato fino all’ultimo nella rosa dei superfavoriti: regista iraniano oscarizzato (miglior film straniero a Una separazione, l’anno scorso) ma girato in Francia e in francese, perciò anche questo un risultato eccellente di quella «promozione» francese degli immaginari che il festival è sembrato, appunto, voler celebrare.

Un po’ fuori da quegli schemi, ma vicino alla luccicanza infantile tanto cara a Spielberg è il Premio speciale della giuria a Like father, like son di Hirokazu Kore-Eda, fiaba simmetrica in cui i bambini insegnano agli adulti che i rapporti d’amore non cominciano e finiscono con i rapporti di sangue.

Poi c’era l’America, e Spielberg non poteva/voleva ignorarla, anche se per senso di correttezza non è stata Palma. Ecco così il Gran Premio ai Coen per Inside Llewyn Lewis, il più sfrontatamente «europeizzante» dei film Usa in concorso quest’anno, nonostante l’ambientazione nel Village newyorkese anni sessanta e non solo perché il maggior finanziatore del film è il francese Studio Canal. Indovinato il premio di migliore attore a Bruce Dern per Nebraska di Alexander Payne, un film la cui durezza è sfuggita a molti critici, bello anche perché privo di quella patina di ossessione autoriale canonica, che (come i Coen) fa tanto «Cannes».

Escluso purtroppo da ogni riconoscimento, invece, il cinema d’autore fuoriclasse, sintomo di una contemporanea controcultura cinematografica: Jarmush e i suoi commuoventi vampiri «autobiografici» fuori del tempo, (Only Lovers Left Alive è però stato acquistato dalla Sony), Polanski e il suo amore per le donne libere davvero, e il Liberace di Soderbergh (Behind the Candelabra) anch’esso «scandalosamente» lasciato fuori. Prevedibilmente ignorato (è stato uno dei film più stroncati del festival, insieme al bruttissimo Refn), come d’altra parte il fordiano Jimmy P, di Arnaud Desplechin, anche il grandissimo omaggio al cinema USA del giapponese Takashi Miike, Shield of Straw.

Cosa ci dice dunque questo Palmarès che sembra avere fatto tutti felici, senza troppe sorprese a parte Heli di Escalante? Fondamentalmente che ha vinto l’ossessione autoriale meglio se legata alla vita «vera», come nel film di Escalante che unisce belle immagini e torture insopportabili per dirci della brutalità del narcotraffico – ma ce ne è molto di più nelle parole del Sicario di Gianfranco Rosi nell’esibizione macha di violenza in fondo catartica che ne fa il regista messicano. Kechiche ha dedicato il premio ai giovani e soprattutto ai giovani del suo paese che hanno fatto la rivoluzione per essere più liberi. Il suo film, si è detto, è stato da subito la Palma unanime almeno per la critica transalpina, salutato come la «bomba filmica» – tipo Holy Motors lo scorso anno – di un festival che in realtà, a parte una manciata di titoli – Lav Diaz, Guiraudie, Minervini, Valeria Bruni Tedeschi, Polanski, Jarmush, Jia Zhang Ke (premiato per la sceneggiatura, la sua realtà inclassificabile non faceva tornare i conti), Desplichin, Takashi Miike – è stato piuttosto affermazione di un sistema degli immaginari tranquillizzante anche se «scandaloso». È una questione di sguardi, ovviamente, di sguardi liberi o imprigionati, di immagini aperte o chiuse e di universi simbolici che resistono o accettano un sistema autoritario e immutabile. Cattivo uso dei generi, del postmoderno o della nostalgia, o necessità di un extrafilmico, il sociale bene indirizzato.

La donna soprattutto in un festival che ci parla di un maschile sempre più inadeguato e ansioso di affermazioni: le figure femminili del film di Farhadi, imprigionate nel passato, e giudicate e condannate dall’investigazione del personaggio maschile, che ne metterà a nudo le azioni spregevoli. Il senso di colpa riscrive il melò, nella meschinità del quotidiano. Spielberg ha dato una Palma a tre, regista, Kechiche e interpreti, Lea Seydoux e Adele Exarchoupolos, e il film non sarebbe stato possibile senza lo sfinimento dei loro corpi performativi nella seduzione della macchina da presa.

Un amore lesbo, vincente nel giorno in cui in Francia un milione di persone manifestano contro i matrimoni gay e l’anno in cui in Usa Liberace è un rimosso scomodo e kitsch perché una Major accetti di farne un film, ma persino le grosse corporation fanno lobbying a Washington per le nozze omo. Ma Adele non è né etero né lesbica, si cerca e che da ragazzina preferisca la compagna di classe al compagno heavy metal sta in quella confusione sessuale dell’adolescenza. Emma la ama perché ci si innamora al di là del gender, e la loro storia negli anni permette di applicare una serie di spiegazioni sociologiche che anche la performance fatica a sconfiggere, difatti Adele probabilmente tornerà ai maschi maghrebini e Emma alla vecchia fidanzata nel frattempo incinta perciò madre.