Nell’ottobre dello scorso anno molte attrici famose come Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e Asia Argento accusavano uno dei più potenti produttori hollywodiani, Harvey Weinstein di molestie sessuali; da quel momento una miriade di donne in tutto il mondo adotta gli hashtag #quellavoltache (che da poco è anche il titolo di un libro di testimonianze pubblicato da Manifesto libri) e #metoo per aggiungersi pubblicamente all’infinita lista di donne che hanno subito aggressioni, molestie, intimidazioni a sfondo sessuale, con la speranza che quest’ammissione collettiva porti più consapevolezza e contribuisca a cambiare le cose. Un vaso di Pandora scoperchiato sotto i riflettori dello star system, che si aggiunge alle proteste contro la violenza di stampo maschilista iniziate nel 2015 dal movimento #Niunamenos in Argentina e allargatesi velocemente a tutto il mondo. Niente purtroppo sembra aver fermato la violenza sulle donne né i casi di femminicidio che riempiono le pagine dei nostri quotidiani ogni giorno, ma si moltiplicano le esperienze artistiche dedicate alla tematica della violenza di genere. Questo mese nelle librerie italiane arrivano due lavori di fumettiste che hanno deciso di raccontare con una storia illustrata la loro personale esperienza: “Ragazze cattive” (Canicola) della coreana Ancco, e “Io sono Una”(Add Editore), dell’illustratrice britannica Una. Si tratta di due libri molto diversi, tali sono le storie e lo sfondo sociale in cui le vicende si snodano, anche se il primo tratto ovvio per accostare i due lavori è proprio quello autobiografico.

RAGAZZE CATTIVE

Ancco, coreana, classe 1983, ha 15 anni quando la Corea del Sud rischia di dichiarare bancarotta e riceve dal Fondo monetario internazionale il più grande pacchetto di salvataggio della storia. Il paese è minato dalla crisi economica e culturale e la violenza sembra essere l’unico approccio possibile nelle relazioni di potere. È la stessa atmosfera in cui cresce Chinju, la protagonista del suo romanzo, nata in una famiglia benestante e conservatrice, che è una figlia ribelle (e diventerà fumettista). In un lungo flashback Chinju ricorda la violenza del padre, dei professori e gli abusi dei coetanei. A salvare la sua vita c’è Jeong-ae, una compagna di classe che vive una difficile situazione familiare e che la invita a ribellarsi e a cercare l’indipendenza e la felicità. Insieme trovano un’occupazione, che si rivela essere quella di accompagnatrice, per la quale sono troppo giovani. Torneranno a casa e ai banchi, dove la violenza si riverserà contro di loro in modo ancora più spietato. Affacciarsi al mondo adulto non è semplice, soprattutto in un contesto sociale come quello, dove gli uomini sembrano condurre vite vuote e prive di senso e sono spesso mascalzoni, sfruttatori o violenti. La narrazione scivola dolcemente tra passato e presente, sullo sfondo di questa notte scura che è la notte morale del paese. Le tavole del fumetto non potrebbero tradurre meglio quest’oscurità: i neri sono ampi e piatti, profondi; il tratto è secco eppure molto eloquente, nei cambiamenti di stato d’animo della protagonista così come nei sui cambi di look- in sostanza- nei momenti in cui la protagonista si riprende la sua adolescenza, sebbene tormentata dalla violenza, dalla “paura di essere picchiata”. Anche quando dieci anni dopo la sua scomparsa, intravede Jeong-ae, l’amica di allora, la protagonista non cade in inutili pietismi; lo stesso fa con la sua mano e il suo racconto l’autrice, che firma un libro equilibrato nella sua spietatezza, un resoconto doloroso dove la rabbia e la frustrazione, le domande che ancora tormentano Chinju, ci avvicinano a quella che doveva essere un’esperienza piuttosto comune in quel momento, senza per questo suggerire che fosse giusto subirla.

L’autrice sarà ospite del Far east Film festival di Udine con una mostra al Museo di Arte Moderna e Contemporanea dal 20 aprile al 13 maggio 2018 e inoltre incontrerà il pubblico anche al Centro delle donne di Bologna (23 aprile), a Roma alla libreria Tuba (giovedì 26 ore 19) ed infine a Napoli, all’università Orientale (27 aprile, ore 15.00) accompagnata dalla traduttrice Roberta Barbato e dal coreanista Andrea De Benedettis.

IO SONO UNA

Anche la storia firmata dall’inglese Una (che invece sarà presente al Salone del Libro di Torino domenica 13 maggio), sebbene più esplicitamente autobiografica, inizia negli anni dell’adolescenza della protagonista. Siamo nel 1975 nella regione inglese del West Yorkshire e Una ha 12 anni; tra le rivolte razziali, la ridefinizione dei confini della contea, gli scioperi e i dirottamenti aerei, sulla stampa fioccano orribili fatti di cronaca: una serie di aggressioni e poi di omicidi di donne, spesso prostitute. Nonostante si mobiliti una squadra di 200 poliziotti, l’indagine si risolve solo sei anni dopo, quando Peter Sutcliffe, il ricercato squartatore di Leeds, viene accusato dell’uccisione di 13 donne. L’artista inglese intesse la propria vicenda personale sullo sfondo di quest’indagine. Becoming, unbecoming, questo il titolo originale dell’opera, narra di una crescita minacciata e danneggiata dalla violenza di genere, da un oltraggio impossibile da raccontare proprio in quella società dove poliziotti, investigatori e giudici non sono in grado di individuare un assassino, accecati probabilmente dal fatto che le vittime siano per lo più prostitute. Il silenzio della giovanissima Una, che circondata da una società conservatrice e bigotta non si azzarda a confessare cosa le è capitato-almeno un paio di volte si è imbattuta in uomini più maturi che hanno abusato di lei- riecheggia nell’impossibilità di dare una svolta alle indagini, nell’implicita denuncia a un sistema che è incapace di leggere la violenza, e si aggrappa spesso all’espediente del consenso, evitando di condannare direttamente i responsabili. Così da un lato la raffigurazione in linea chiara di Una, volontariamente anonima, si arricchisce di piccole ali d’insetto, sempre distese lungo il corpo, a suggerire la privazione della capacità di volare, o di trovare una propria identità: lo dimostrano le pagine intere di paper dolls-vestiti di bambola da ritagliare-che sottolineano la ricerca costante di una personalità che non sia quella affibbiata dalle cattiverie degli altri. Di certo un’impresa ardua quando la sessualità si è affacciata troppo presto e in modo violento sulla sua vita, facendo esplodere nelle tavole grandi macchie di acquarello nero, pesante come la vergogna, ingombrante come la reputazione di cui Una ha scoperto l’esistenza solo dopo averla perduta, nella dialettica- troppo generalizzata tra le vittime di violenza-di sentirsi causa ed effetto del proprio problema. Il racconto in prima persona, nel quale filtrano i pensieri della scrittrice adulta, che ha dopo molti anni superato il trauma, accompagna le figure libere da griglie in tavole dove la stessa disposizione del testo delimita gli spazi narrativi. L’autrice inserisce ritagli di giornali dell’epoca, e personaggi corali giudicanti, nella loro cecità: la sua famiglia, come la società, non capisce, minimizza, incolpa implicitamente la vittima, con un atteggiamento che l’autrice descrive in modo lucido e acuto nella bella postfazione del suo difficile libro: “l’idea che ci sia qualcosa di radicato in profondità nella cultura che produce eruzioni di violenza di genere e la fa prosperare, invece di considerarla casuale e immotivata, sta diventando predominante e questo è il motivo per cui ho scritto questo libro”. Un contesto di misoginia, “un oceano di oggettificazione” nel quale l’autrice, quando non si traveste da insetto si limita ad aggrapparsi ad una nuvoletta senza testo, che trascina come un fardello silenzioso.

Due libri amari e profondi, preziosi, nella loro intensità, che trasmettono tutta la difficoltà e allo stesso tempo il sollievo di poter condividere il proprio trauma senza più paura di non essere ascoltate, o giudicate.