Dicono gli antropologi che la retorica delle «radici», sempre usata come arma contundente ideologica nei confronti di chi non condivide i nostri stessi tratti storici è solo un altro degli imbrogli che giustificano le sopraffazioni. L’umanità ha i piedi per muoversi e spostarsi, non filamenti infissi nel terreno. Il resto è veleno identitario. Nessuno lascerebbe la propria casa, a meno che non sia la tua stessa casa a gridarti che devi fuggire perché arriveranno quelli con le lame e il fuoco a bruciare tutto. Ogni altro posto può essere più sicuro. Questo è il senso dell’emigrazione e delle onde umane che cercano di passare il Mediterraneo. Perché la loro casa brucia.

Questo in estrema sintesi potrebbe essere il senso di uno spettacolo lirico e ruvido come un legno non levigato come Da questa parte del mare, andato in scena per il Teatro dell’Archivolto di Genova con la regia di Giorgio Gallione, sul palco Giuseppe Cederna. Prossime repliche estive in definizione, e dal 31 ottobre al 12 novembre a Torino, Teatro Gobetti. Il titolo è quello del libro (e di un disco a monte del tutto) che Gianmaria Testa ha lasciato come estremo dono prima di andarsene, un anno fa, un libro che incrociava storie personali e storie di chi è dovuto emigrare per forza. Storie aspre e bellissime, libro e disco come due facce di una stessa medaglia: la memoria. La necessità di ricordarci da quale storia veniamo, noi gente, come dice il papa Bergoglio, che sta imparando a praticare «l’anestesia del cuore», e la «globalizzazione dell’indifferenza». In scena sassi, un simbolico contorno di terra che abbraccia uno specchio d’acqua simulacro di «mare nostrum», qualche sedia, un cappotto, una barchetta di carta che può essere barcone fradicio o ridiventare, come nel finale, l’onirico veicolo dei sogni di un’antica canzone di Testa. Cederna è e non è al contempo la voce di Testa, affiorante con lacerti accennati di canzone: è la voce scheggiata di quelli che non hanno voce, e che se devono andare a fondo, alzano le mani, scendono a picco come statue, e lasciano l’ultimo fiato per gridare: «salvate i bambini».

È la voce della sindaca di Lampedusa e di Agnese di Palermo, la «grande madre mediterranea» che accoglie tutti come suoi figli, e magari fa anche abortire le ragazze che portano in grembo il frutto di uno stupro selvaggio, è la voce della prostituta nigeriana che incrocia Testa in una notte di gelo cuneese, trova riparo sull’auto del poeta con la chitarra con il riscaldamento acceso, e poi si congeda per prendere un treno con un sorriso: «perché non mi sposi? Sono buona e so come tenere una casa».

Già, una casa: forse è questo il cuore di Da questa parte del mare, uno spettacolo che dovrebbe girare anche nelle scuole: se nasci dalla parte sbagliata del Mediterraneo, neppure quella hai ad aspettarti, come succedeva ai migranti italiani. In fondo invece, diceva Gianmaria, e ci ripete Cederna, di cosa c’è davvero bisogno? «di poche parole, e di una porta sempre aperta» .