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Quelle canzoni appese a un «ponte»

Quelle canzoni  appese a un «ponte»In «(Sittin’ on) The Dock of the Bay» di Otis Redding il «bridge» è determinante

Storie/Non solo strofa e ritornello. In aggiunta anche il cosiddetto «bridge», un inciso imprescindibile e affascinante Piccoli, grandi segmenti sonori, apparentemente superflui, che però hanno saputo reinventare la magica e imprevedibile alchimia di tanti brani

Pubblicato più di un anno faEdizione del 15 aprile 2023

Poco dopo i due minuti dall’inizio di Get Up (I Feel Like Being a) Sex Machine la storica canzone di James Brown, il padrino del soul arringa la sua band come avrebbe fatto il predicatore che interpreterà nel film The Blues Brothers. Si rivolge a Bobby, ossia Bobby Byrd, organista della formazione e seconda voce del brano, e chiede: «Bobby! Devo portarli sul ponte?». «Vai!» gli risponde Byrd. Il dialogo prosegue e inserisce una variazione di tema della canzone. La versione completa del pezzo, ascoltabile nell’album pubblicato nel 1970, è una cavalcata funky. Il bridge, «il ponte», a cui fa riferimento non è ovviamente un ponte reale, anche se la canzone gioca con l’ambiguità del termine, ma semplicemente quell’inciso musicale che serve a collegare due sezioni di un brano, permettendo di spezzare la monotonia della composizione. Nella tradizione delle canzoni dell’era del pop e del rock, concepite in origine per essere consumate in fretta e ascoltate sui 45 giri, in radio e nei juke box, lo schema tradizionale per il successo è legato all’alternarsi tra strofe e ritornello, anticipati da un’introduzione strumentale, che attiri l’attenzione o incuriosisca, e separati per essere poi ricollegati nel loro avvicendarsi proprio da un bridge.
Un segmento sonoro apparentemente non indispensabile. Le canzoni concepite per diventare hit vengono infatti riconosciute e ricordate, nella maggior parte dei casi, per il loro ritornello. Il songwriter Jeff Tweedy, leader dei Wilco, la band di Chicago, nel suo recente manuale intitolato How to Write One Song invita, soprattutto nelle prime fasi della composizione, a non considerare troppo il bridge e a concentrarsi sulle parti più rilevanti di quello che diventerà un brano musicale. «Quello che voglio – scrive – sono un verso d’impatto e un ritornello altrettanto forte. I bridge sono come una tregua prima di tuffarsi nuovamente nella melodia ripetuta della canzone. A volte sono chiamati middle-eight (perché tendenzialmente composti da 8 battute, ndr). Sapete cosa sono anche se non sapete come si chiamano». È stato fatto inoltre notare come nell’epoca dei campionamenti, dei loop, delle app per comporre brani e dei frammenti musicali che sono alla base dei contenuti di Instagram e Tik Tok, il bridge sia di fatto diventato, per un brano pop contemporaneo, quasi un orpello superfluo, visto che i pezzi vengono condensati, per non dire assemblati o sezionati, con la sola melodia di un ritornello o di un groove. Tuttavia in non pochi casi ci sono state canzoni in cui il bridge ha dato qualcosa di unico e particolare, diventando assai più di un raccordo o di una divagazione, e trasformandosi in un climax musicale o in un colpo di genio del compositore. Alcuni bridge hanno così fatto scuola e storia, e sono serviti a reinventare la magica e imprevedibile alchimia delle canzoni. Eccone qualche esempio.

Hank Williams Lovesick Blues (1949)
Uno standard del country classico e costruito proprio attorno a un bridge. Il re della musica western, reinventò questo pezzo che proveniva dalla tradizione di Broadway. Il brano ha un incedere curioso, quasi altalenante, e stupì Bob Dylan perché si accorse che la versione di Williams aveva preso proprio il bridge del pezzo originario e l’aveva usato come strofa principale e viceversa. Un esperimento che Dylan nelle sue memorie confessa di avere imitato per alcune sue composizioni che non lo convincevano. Ma senza il successo del leggendario Hank. Peraltro il grande Bob ha raramente usato i bridge nelle sue canzoni.

The Beach Boys Wouldn’t It Be Nice (1966)
Alla metà degli anni Sessanta nessuno sapeva scrivere melodie pop come Brian Wilson. Wouldn’t It Be Nice, che compare sul capolavoro Pet Sounds, è una sinfonia di due minuti e mezzo che ai tempi suscitò la sorpresa e le invidie di chiunque scrivesse canzoni. Come accadrà anche per la successiva Good Vibrations, qui il bridge si inserisce nelle strofe e sembra trasportarci in un altro luogo con una trovata quasi psichedelica. Recita il testo: «Maybe if we think and wish and hope and pray, it might come true» («Forse se lo pensiamo, ce lo auguriamo, lo speriamo e preghiamo, potrebbe diventare vero»). Wilson ci porta in mezzo a un sogno a occhi aperti, la voce singola si moltiplica in un coro, il ritmo poi riprende e ci accompagna alla conclusione.

The Beatles A Day in the Life (1967)
Quando si parla di canzoni, inevitabilmente si arriva a loro. I Fab Four iniziarono ispirandosi ai classici dell’epoca per poi sviluppare, grazie anche al talento di George Martin, una loro idea di composizione. Nel 1967 istigati dai Beach Boys cercavano di ridefinire i paradigmi del pop. Ci riuscirono con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e soprattutto con il capolavoro A Day in the Life, la traccia conclusiva dell’album. Lennon canta per due strofe, un crescendo sinfonico conduce poi a una canzone completamente diversa cantata da McCartney che si conclude in una strofa. Un altro prepotente ingresso orchestrale ci riporta a Lennon e l’orchestra tornerà per concludere il brano con un altro crescendo che sembra quasi interrompersi prima di arrivare a una cacofonia di strumenti, un momento che toglie il fiato e con cui cala il sipario. Qui le regole musicali non esistono più. Due canzoni unite in un insieme apparentemente contraddittorio, ma completamente coerente in cui tutto è disordine e nulla è fuori posto. I due intermezzi orchestrali sono i bridge che portano alla sezione cantata da Paul che più che un middle-eight è un’intrusione, un pezzo spaiato che però sembra combaciare alla perfezione. Ma i «ponti» di A Day in the Life, più che collegare, spezzano ogni legame con la tradizione musicale. Un punto di non ritorno per la musica pop e rock.

Otis Redding (Sittin’ on) The Dock of the Bay (1968)
Se c’è un classico che viene ricordato proprio per il suo middle-eight è questa hit firmata da Redding e dal chitarrista Steve Cropper. Un evergreen che dura meno di tre minuti, immortale come la voce che la incise. Il bridge qui è il culmine della canzone. Il brano inizia con il suono delle onde del mare che ci illude di essere affacciati sulla stessa baia di chi sta cantando: «Seduto al sole del mattino. Sarò seduto quando arriverà la sera». Non è una canzone oziosa, idilliaca e romantica, è la ballata tragica di un uomo di cui sappiamo poco e di cui capiamo ben presto il dramma personale. Ha perso tutto, è arrivato, forse scappando, dalla Georgia e oggi contempla l’oceano, convinto che la vita non abbia più nulla da offrirgli. Il grido di dolore arriva proprio nel bridge, dopo un minuto e venti secondi. «Look like nothing’s gonna change» («sembra che nulla cambierà»). La voce di Otis diventa intensa, malinconica, quasi vertiginosa e colpisce al cuore. Si capisce, senza aver bisogno di intendere il testo, il vero significato della canzone e la sofferenza di un uomo di fronte a un destino che non ha voluto. Fu un presagio. Le sessioni di incisione di (Sittin’ on) The Dock of the Bay vennero concluse il 7 dicembre 1967. Otis Redding morì tre giorni dopo in un incidente aereo. Aveva solo 26 anni.

Elvis Presley Suspicious Minds (1969)
Un repertorio di più di 600 brani, eppure il re del rock’n’roll non ha mai scritto una canzone. Anche i pezzi dove il suo nome compare come co-autore in realtà erano opera di altri, ma alcuni accordi contrattuali prevedevano che Elvis fosse titolare del 50% dei diritti dei pezzi che cantava. The Pelvis sapeva però scegliere, e interpretare, come nessun altro. Suspicious Minds oggi la ricordiamo come un classico, ma è una testimonianza di un’epoca in cui Presley era considerato come un’icona del passato anche se doveva ancora compiere 35 anni. Il pezzo fu originariamente inciso dal suo autore, il texano di origini italiane Mark James, nel 1968. Non ebbe alcun successo. Nella versione originaria appare come una ballata un po’ sostenuta e francamente risibile e noiosa. Elvis senza alterarne la struttura la reinterpretò rendendola intensa come un’opera lirica e sofferta come una confessione. Uno dei momenti più coinvolgenti è proprio il bridge. Nella versione di James appare quasi un incidente di percorso, grazie al re diventa un intermezzo teatrale, un colpo d’ali poetico e sublime. Fu l’ultima canzone di Elvis ad arrivare al primo posto nella classifica americana.

Lucio Battisti La canzone del sole (1971)
Con il verso «Dove sei stata? Cosa hai fatto mai?» inizia uno dei bridge più famosi della canzone nostrana. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Chiunque abbia suonato una volta una chitarra su una spiaggia sa proseguire da questo punto con versi e accordi. Erano anni in cui Battisti e Mogol sfornavano brani che si sono inseriti nel dna musicale degli italiani.

Bruce Springsteen Born to Run (1975)
La canzone che ha creato la leggenda rock del Boss fu prodotta pensando alla potenza sonora del Wall of Sound di Phil Spector. Oggi è un brano immortale anche se suona un po’ barocco, ma Springsteen, che quando incise la canzone aveva 24 anni, cercava di emanciparsi dall’immagine di cantautore verboso e voleva plasmare un’epica giovanilistica e un inno di fronte al quale nessuno poteva rimanere indifferente. Il middle-eight qui ci regala una scena alla American Graffiti con motori che ruggiscono, ragazze che si pettinano, ragazzi che osano e il sogno di un bacio «everlasting», destinato a non finire mai. Poche battute in cui è racchiuso un mondo e una mitologia.

Pink Floyd Hey You (1979)
L’avvento del progressive rock negli anni Settanta stravolse la sintassi musicale tradizionale, portando il rock verso composizioni dilatate ricche di passaggi, assoli e divagazioni. I Pink Floyd sono stati campioni di complessità (le suite di Meddle e Atom Heart Mother) e di essenzialità e semplicità (Wish You Were Here). La cupa Hey You, da The Wall, è una delle loro canzoni più amate. Nello sviluppo del concept dell’album è posta strategicamente nel mezzo, a rappresentare il momento più duro, quello in cui il protagonista del racconto è rinchiuso e prigioniero. La dicotomia David Gilmour-Roger Waters si sviluppa con la voce del secondo che entra proprio nel bridge per poi chiudere (amaramente) la canzone. Un ingresso necessario e personale. «Hey You – ha spiegato Waters – fa riferimento alla fine del mio matrimonio. Tutta quella miseria, quel dolore di essere lontano quando la tua donna ti dice al telefono che ama un altro uomo».

Sting Englishman in New York (1987)
«Parte come una cadenza reggae, poi ho aggiunto un bridge che sembra di musica classica, così ho inserito i violini e un clavicembalo e poi inizia una sezione jazz. Volevo dare l’impressione di qualcuno che cammina per strada, che attraversa diversi eventi sonori. Per capire quello che accade per le strade di New York. Passi lungo le vetrine e da ognuna esce una musica diversa», così Sting descriveva i passaggi musicali di uno dei suoi successi più noti, in cui i cambi di tempo e melodia diventano magicamente elementi di paesaggio.

R.E.M. Everybody Hurts (1992)
Un maestro di musica vi direbbe che uno dei brani più famosi del quartetto della Georgia è in 12/8. Il semplice ascoltatore lo riconosce come una canzone di dolore e rivincita, un inno non all’ottimismo fine a se stesso, ma un invito a non arrendersi mai perché la sofferenza accomuna tutti e può essere sconfitta. È il bridge a introdurre il messaggio forte del testo: «You’re not alone», «non sei solo». Una frase che viene ripresa prima di un finale che nei concerti dei R.E.M. diventava un lungo mantra corale.

U2 One (1992)
«Bono tu sei un baritono che crede di essere un tenore». Come il cantante degli U2 racconta nelle sue memorie, questo era il giudizio che dava di lui suo padre, grande appassionato d’opera. Il bridge di una delle canzoni belle del quartetto di Dublino è una dimostrazione delle ambizioni quasi operistiche della voce di Bono, che in una ballad che cresce progressivamente d’intensità trova nel cambio di registro il suo momento più travolgente e indimenticabile. In realtà la stessa One nasce da un bridge. La melodia del pezzo fece capolino infatti durante una jam della band che stava suonando un altro brano, Mysterious Ways. Al momento di attaccare il bridge la chitarra di The Edge iniziò a improvvisare alcuni nuovi accordi: La minore, Re, Fa, Sol, La minore. Il ponte questa volta portava su una strada completamente diversa. Era nata una nuova canzone.

Jeff Buckley Last Goodbye (1994)
Sono solo 7 le canzoni originali che il compianto Jeff Buckley riuscì a pubblicare nella sua breve vita, parte del suo unico album ufficiale Grace. Rimangono poi alcune cover (tra cui, ovviamente, Hallelujah di Leonard Cohen) e altri brani e frammenti usciti postumi. Possiamo solo immaginare di cosa sarebbe stato capace. Sappiamo di cosa fu capace. Last Goodbye ne è una testimonianza. Un brano epico e malinconico che non è mai invecchiato, esattamente come il ragazzo che lo cantò. Più che alternarsi in una serie di strofe e un ritornello Last Goodbye sembra evolversi, il bridge è anche parte di un crescendo musicale che porta al climax. Un inno di rimpianto, ma che sembra aprirsi verso un finale che sa più di speranza che di rassegnazione.

Goo Goo Dolls Iris (1998)
La band di Buffalo confezionò questa hit per City of Angels, il trascurabile remake americano de Il cielo sopra Berlino. Iris è una ballata che sembrerebbe all’inizio quasi scontata e con armonie non particolarmente originali, ma dopo poche battute assume una cadenza e un’atmosfera del tutto particolari date dall’arrangiamento e dalla scelta dei ritmi. La chitarra ha un’accordatura insolita, gli archi la rendono più cinematografica e il cantato è volutamente melodrammatico. Ma il colpo di scena arriva dopo due minuti quando i versi si interrompono per un minuto e mezzo, cosa strana per una canzone pensata per essere un successo radiofonico. Le parole lasciano spazio a un bridge che diventa un break musicale che è il vero valore aggiunto del pezzo, un emozionante crescendo tra archi, chitarra acustica e chitarra elettrica che sembra portare una semplice ballad su un altro livello. Il tutto poi sfuma, creando un’insolita sospensione che apre a un finale confezionato ad arte. Non stupisce che Iris sia stata più volte elencata tra le migliori canzoni pop della sua era e che sui servizi streaming abbia più di un miliardo di ascolti.

Outkast Hey Ya! (2003)
Un duo hip hop alle prese con un brano che sa di soul e electro dance. Indimenticabile anche il bridge che alcuni puristi però preferiscono definire un breakdown, cioè un più marcato cambio di ritmo e melodia. Sta di fatto che il momento in cui André 3000 intona «Shake it like a Polaroid picture» («Scuotilo come una fotografia Polaroid») trova lo spunto non solo per una mossa di ballo, ma anche per un altro formidabile e contagioso ritornello in una canzone in cui convivono James Brown, Prince, Little Richard e i Devo.

Kelly Clarkson Since U Been Gone (2004)
Max Martin è la più grande popstar di questo secolo, anche se è ignoto soprattutto a chi adora le sue canzoni. Il produttore e songwriter svedese, Martin Sandberg all’anagrafe, è il burattinaio della musica commerciale degli ultimi vent’anni (ha sfornato successi per Katy Perry, Pink, Maroon 5, Taylor Swift, The Weeknd…) e contende con Lennon e McCartney il record per il maggior numero di hit al numero uno della classifica Usa. Possiamo accusarlo di aver reso il pop odierno un insieme indistinto di melodie tanto accattivanti quanto usa e getta. Ma nessuno può mettere in dubbio che conosca la formula del successo. Since U Been Gone è uno dei tanti esempi, un brano pop dedicato a una relazione tossica che potrebbe essere arrangiato come un rock anthem o un punk melodico. Efficace sin dall’attacco, si impreziosisce di un bridge strategico non solo per il testo della canzone, ma anche per la dinamica, aumentando l’energia della musica e la tensione in vista di un finale di impatto.

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