Sempre più braccia e non solo cervelli in fuga dall’Italia, ormai. L’elenco delle “Rosarno” d’Australia è lungo e lo stila lo stesso governo di Canberra. Childers, Echuca, Shepparton, Forbes, Ayr, Boonah, Bowen, Gatton, Ulverstone: sono solo alcune delle località dove si concentrano le farm più importanti per la raccolta di pomodori, dal Southern Queensland allo stato di Victoria, fino alla Tasmania. La National Harvest Guide le descrive minuziosamente, non tralasciando informazioni turistiche e attrattive locali, e spiegando alle migliaia di giovani europei che ogni anno si riversano in pellegrinaggio in questi santuari del Working holiday visa quando andare, come arrivare e a chi rivolgersi. Bastano 88 giorni di duro lavoro in queste cattedrali ai margini dell’arso deserto australiano per ottenere un secondo anno di visto e guadagnarsi così la chance di una nuova vita nel paradiso dei surfisti. Il sogno degli under 31 europei, e italiani in particolare, parla ancora inglese ma non è più americano: si nutre di parole come wild life, health, wellness, fitness, organic.

È questa l’Australia, nelle fantasie dei giovani italiani che negli ultimi due anni in numero più che raddoppiato hanno comprato un biglietto di sola andata per il lungo viaggio Down Under. Disposti a spezzarsi la schiena sotto il sole, a fare i lavori più umili, quelli che in patria lasciano volentieri alla mano d’opera africana. In attesa, ogni mattina all’alba in quegli incroci polverosi che chiamano town, del furgoncino guidato da aborigeni sottopagati che li preleva, se il farmer decide di assumerli per una giornata a raccogliere frutta o vegetali, a governare gli animali o anche solo a spalare letame. Disposti a seppellire nel cassetto quel titolo di studio così importante alle nostre latitudini e così inutile nel «paese delle opportunità», dove «ti mettono alla prova e se funzioni il lavoro è tuo», come ripetono in ogni ristorante, in ogni fattoria e in ogni cantiere edile popolato da immigrati d’ultima generazione. Non sempre il sogno si avvera, e molto spesso si torna delusi e bastonati alla base. Ma l’orizzonte è luminoso, non buio come da noi, per quelle decine di migliaia di giovani italiani – 18 mila nei primi sei mesi di quest’anno – che prendono il volo; più fortunati dei loro nonni che negli anni ’50 vomitavano per due mesi a bordo dei transatlantici.

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Bye Bye Italia

«L’Europa era troppo vicina per fare un passo così importante; in Australia sicuramente non potremo cedere alla tentazione del rientro in Italia alla prima difficoltà». Ilaria ha lasciato a Roma un posto fisso come operatrice e montatrice video, stufa della precarietà che «si respira ovunque e comunque: una casa che non puoi permetterti, la difficoltà di spostarsi, la paura continua di perdere il lavoro, e un salario che non ti basta neppure a comprarti un’auto nuova». Assieme al fidanzato Emiliano hanno salutato parenti e amici con le lacrime agli occhi. L’inglese non è il loro forte ma hanno meno di 31 anni, il limite massimo per poter ottenere il visto annuale 417, la tipologia del Working holiday rinnovabile per un secondo anno e disponibile per i cittadini di 29 Paesi del mondo. Per i giovani del Commonwealth è una vecchia tradizione, attiva dal 1975, mentre gli italiani vi hanno accesso solo dal 2002, ultimi tra i Paesi occidentali. Sembrerebbe strano, vista la consistenza delle comunità italiane in città come Melbourne, Sydney, Brisbane, Adelaide, Perth, Canberra o Cairns. Ma è più comprensibile se si pensa che fino al 1973 le leggi della White Australia policy puntavano all’incentivazione dell’immigrazione bianca ma consideravano l’etnia italiana «half white».

Ilaria e Emiliano hanno scelto Brisbane per il clima subtropicale e soprattutto per la vicinanza a numerose farm accreditate per il rinnovo del visto di soggiorno. La politica del governo federale in materia d’immigrazione infatti prevede un visto “premio” per gli stranieri che prestino mano d’opera nell’industria primaria di alcune «aree di sviluppo» del Paese per almeno 88 giorni: le fattorie di certe regioni agricole, le miniere e alcuni cantieri edili. Tre mesi durissimi per ottenere due anni di tempo da spendere alla ricerca di un posto fisso sponsorizzato. Non proprio un’illusione: in Australia la disoccupazione viaggia costantemente al di sotto del 5,8%. «Con il nuovo governo, poi, si sta rivalutando anche una seconda tipologia di visto lavorativo, il 457, per chi ottiene una sponsorizzazione da parte di un’azienda che dimostri di non aver trovato tra le competenze locali il profilo lavorativo dell’immigrato, assunto a tempo pieno per due o quattro anni e con stipendio minimo previsto dallo Stato», spiega Marina Freri, giovane giornalista italiana trasferitasi a Sydney cinque anni fa e già assunta regolarmente dalla Sbs, il canale radiotelevisivo governativo all news nato negli anni ’70 al servizio della società multiculturale aussie e che trasmette oggi in 74 lingue diverse. «Dopo due anni di sponsorizzazione puoi richiedere la residenza e dopo un altro anno la cittadinanza, purché non si lasci il Paese per più di tre mesi; il conferimento finale avviene davanti al sindaco previo esame di conoscenza generale del Paese e della sua società», aggiunge Freri che con un altro giornalista italiano, Marco Lucchi, conduce per la Sbs una rubrica radiofonica settimanale in italiano – «Australia: istruzioni per l’uso» – dedicata alla nuova ondata di emigranti nostrani.

Lavoratori o rifugiati: doppia misura

Regole rigide per gli immigrati, dunque, ma non irragionevoli come da noi. Anche se, va ricordato, di tutt’altro tenore è la politica contro i boat people, respinti in mare manu militari o trasferiti immediatamente, quando riescono ad approdare vivi sulle coste australiane, nei centri di detenzione in Papua Nuova Guinea, a Manus Island o a Nauru. Secondo le ultime notizie, in questi community placement si trovano detenuti – illegalmente, secondo le leggi australiane e internazionali – molti minori, ma non se ne conosce il numero. Si sa solo che fino a quando i richiedenti asilo venivano ancora “custoditi” in Australia, nei centri a «basso livello di sicurezza» hanno vissuto reclusi anche fino a duemila bambini. «E le cose stanno perfino peggiorando, per gli asylum seekers – racconta ancora Freri – dopo le elezioni del 7 settembre scorso, il ministero dell’Immigrazione ha ristretto i canali di comunicazione istituzionale con i giornalisti riducendoli ad una conferenza stampa settimanale. Ed ha perfino cambiato nome: al posto della delega alla “cittadinanza”, il ministero ha ora la delega al “border protection“».

Come rifugiato non si ha diritto al lavoro, mentre per gli over 31 o per gli immigrati indipendenti non sponsorizzati l’unica chance per un Bridging visa, rinnovabile a discrezione dell’ufficio immigrazione, sta nel cercare un’occupazione contemplata nella lista delle professioni e dei mestieri, la Skilled Occupation List, richiesti dal governo aussie. Una cosa è certa: per i malati di Hiv o di patologie croniche la residenza, e dunque la cittadinanza, sono off limits.

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Ma tornano al Working holiday visa, l’Italia occupa la settima posizione tra i Paesi con il maggior aumento di richieste dal 2011 ad oggi, anche se in termini assoluti siamo molto distanti dal flusso continuo di giovani provenienti dalle nazioni del Commonwealth. Rispetto a due anni fa, però, se ai cittadini del Regno unito sono stati concessi il 22,2% in più di visti per il secondo anno di W&H, l’incremento per gli italiani è stato dell’88,6%, seguiti a vista solo dagli immigrati da Taiwan con il 68,7%.

Non proprio il paese dei balocchi

Antonio, ingegnere edile napoletano di 30 anni, era «stufo di contratti che si rinnovavano di mese in mese». Però prima di approdare nella farm di banane a Innisfail, vicino Brisbane, dove lavora attualmente, ha girato per un po’, passando al setaccio numerosi working hostel del Queensland. È in questo tipo di ostelli, infatti, frequentati solitamente dai backpackers (viaggiatori fai da te, zaino in spalla), che in genere si trova lavoro, anche se non sempre retribuito adeguatamente e molto spesso solo in cambio di vitto e alloggio (nella modalità Woofing, da Willing workers on organic farm). «A volte le condizioni sono al limite dello sfruttamento, sotto il minimum wage previsto dallo Stato che è di 17,50 $ l’ora – racconta Antonio ai microfoni di Marina Freri –. Nelle farm vicine alle grandi città le paghe sono più basse; per esempio, in 10 ore di lavoro per tre persone si riempiono generalmente 4 ceste di banane, e il compenso è di circa 40$ a cesta». Insomma, «pensavo fosse il Paese dei balocchi, ma è molto più dura di quanto ci si possa aspettare». Nelle farm infatti i giornalisti non sono ben accetti: praticamente impossibile farsi aprire le porte.

Lo raccontano anche Ilaria e Emiliano che, appena sistematisi a Brisbane, non nascondevano l’entusiasmo: «Qui è tutto organizzatissimo, tutto facile e chiaro, tutto scritto on line. In un paio di giorni abbiamo aperto un conto in banca, concluse le pratiche per il Medicare (l’assistenza sanitaria gratuita, ndr) e tutte le altre prassi. Burocrazia zero, e molta cortesia. Hai l’impressione che pur ricominciando da capo, con una lingua nuova e tutto il resto, non sarai condannato allo stallo perenne; il futuro ti sorride di nuovo». Ora, dopo qualche settimana e qualche sfruttatore da dimenticare, i due giovani si trovano a Gympie, un piccolo villaggio tagliato fuori dal mondo, senza connessione internet o telefonica, a curare vacche e polli: «Ci alziamo tutti i giorni alle 7 per iniziare il nostro lavoro verso le 8… Si iniziano a fare i lavori più duri appena alzati, così a mano a mano che sei stanco puoi dedicarti a qualcosa di più soft. Ci trattano bene, però», scrivono sul loro blog che aggiornano solo nei giorni liberi, quando riescono a spostarsi in luoghi “connessi”.

E non è facile, perché le zone di produzione agricola sono quasi sempre molto distanti dai centri abitati e quasi mai raggiungibili con mezzi pubblici. Per arrivare a Griffith, nel New South Wales, per esempio, la più grande area di produzione di agrumi, pollame e uova dell’Australia e da dove proviene più del 20% del vino australiano, bisogna percorrere la Hume Highway, poi la Sturt Highway e infine l’Irrigation Way, per 635 chilometri ad ovest di Sydney. Qui il lavoro è sicuro, nelle risaie o a raccogliere cotone o cetriolini per McDonald. «Molto spesso se non hai la macchina non ti prendono a lavorare», racconta ancora Antonio. Che però non molla: «Se non altro per imparare bene l’inglese e poi chissà… Magari riuscirò a tornare anche in Italia, con un lavoro sicuro, però».