Clara Bellami e Silvana Guerrini sono due ragazze molto diverse fra loro eppure legate, quasi per caso, da un filo che non si intreccia quasi mai. Lo sfondo del romanzo di Concetta D’Angeli, Le rovinose (Il ramo e la foglia edizioni, pp. 139, euro 17), è Siena, gli anni sono quelli tra il 1976 e il 1988. Finisce l’epoca delle lotte sociali e iniziano i mutamenti che porteranno al neoliberismo. Clara è schiava della sua straripante bellezza, Silvana non sa quasi niente della sua sessualità. Non sono protagoniste di nessun movimento sociale o politico, ma sullo sfondo, indirettamente, si respira qualcosa di un tempo oggi quasi dimenticato oppure falsificato da molte semplificazioni che nascondono soltanto un grande imbarazzo.

CLARA è, in un certo senso, una discendente diretta di Flora Saunt, la protagonista di Glasses, il racconto di Henry James scritto nel 1896. Flora, donna di notevole bellezza, rifiuta di mettere gli occhiali per non deturpare il suo viso fino a diventare cieca. In Clara non è soltanto il volto, è tutto il corpo in gioco che lei usa e soprattutto concede agli uomini con un desiderio distruttivo che ricorda la condizione dello gnostico il quale per salvarsi e ascendere verso il dio lontano deve farsi attraversare da tutti i mali del mondo. Nel decennio tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento, tuttavia, non c’è alcun dio gnostico verso cui ascendere. La distruttività è tragicamente e nichilisticamente ciò che lega sottomissione e dominio, bellezza e violenza.

LA DOMANDA che traspare tra le righe di questo bel romanzo di Concetta D’Angeli è: per ricordare il pensiero di Simone Weil, quanto d’inevitabile complicità vi è nella violenza subìta? Che rapporto c’è tra bellezza, violenza e tale inevitabile complicità nella violenza? E tra violenza pubblica e violenza privata? Ma l’apparente complicità della vittima appartiene in realtà a chi usa la violenza, poiché essa, a differenza di un ancora diffuso sentire maschilista, non solo non alleggerisce la colpa del violentatore, ma anzi la aggrava. Dipendere dallo sguardo dell’altro, così come fanno Flora Saunt e Clara Bellami, se questo sguardo è l’espressione di un dominio violento, porta verso l’annientamento. Lorenzo Annibaldi è l’aristocratico senese il quale si scontra duramente con la sua ricca famiglia (ma sceglie ingegneria invece di filosofia per compiacerla) e applica il suo potere alla relazione istituita con Clara, fatta di gelosia, dominio, segregazione, ma giustificata attraverso Schopenhauer e Marsilio Ficino. L’ideale di bellezza incorporea si compiace di un desiderio che trae forza dall’annullamento del corpo di lei.

Silvana Guerrini studia architettura, si laurea, scopre tardi la sua sessualità, ma nel sistema sociale fondamentalmente basato sulla solitudine e sulla concorrenza, basta un errore o uno sfortunato incidente per farle perdere tutto. È a lei che Clara si rivolge scrivendole quando si trova al Sud, «prigioniera» della possessività di Lorenzo, ma alla fine Silvana non risponde e in fondo Clara scrive come a se stessa. La compagna di Silvana è Lea, femminista militante, al contrario di lei. «A Silvana le tensioni interne allo studio (di architettura) sembravano d’importanza vitale, di quello che succedeva nel resto d’Italia non le importava proprio niente…». Clara e Silvana sembrano le donne della nostra epoca, fatta sì di lotte contro la violenza privata ma in un contesto storico dove, nella giusta lotta per i diritti, la critica della politica si scontra e, nello stesso tempo, si mescola con la sua dissolvenza.

LORENZO, rigida figura maschile, si interroga sui «compagni che sbagliano» giustificandoli con la stessa arroganza e con lo stesso modo sprezzante che usa in famiglia e con Clara. La sua domanda se l’è fatta un’intera generazione, la nostra, forse senza rendersi conto che tradurre il terrorismo in uno «sbaglio» o in un errore è stato un alleggerire la cosa. Un errore rende meno pesante la responsabilità di un’azione, togliendone la colpa. L’errore implica la colposità, non la colpevolezza. Ciò che fecero i terroristi fu colposo e non colpevole? E in questi «sbagli» quale posto occupano i morti innocenti? Vittime collaterali? Errori? Su tutto ciò abbiamo messo un pesante telo che nasconde e seppellisce qualcosa che però a volte affiora dentro di noi.

Fu il movimento femminista a porre giustamente la lotta contro la violenza privata sullo stesso piano della lotta contro la violenza pubblica. Questo romanzo è la tragica storia di una violenza privata, ma quando in appendice leggiamo in sequenza i morti di terrorismo e di mafia dal 1976 al 1988, ci rendiamo conto che quest’elenco non è lo sfondo bensì la superficie dimenticata dove, per dirla con Hoffmansthal, la profondità è nascosta. È un grande pregio di questo romanzo, dove, appunto Concetta D’Angeli, con molto garbo, ci fa scoprire la profondità, nelle trame della superficie.