In attesa di tornare in tv Michele Santoro fa un’incursione al cinema, seguendo peraltro i dettami del documentario. Eccolo quindi presentare alla Mostra, per il cinema nel Giardino, Robinù con l’obiettivo puntato su alcune figure a diverso titolo collegate alla paranza dei bambini, la guerra per bande con protagonisti giovanissimi che ha insanguinato il centro di Napoli lasciando sessanta morti nelle strade, decine di condannati in prima istanza e vite appena cominciate già finite. Ecco i ragazzini che saltano la scuola per cercare la pistola e farsi un nome nelle gerarchie, ecco Mariano (nel carcere minorile) letteralmente sedotto dal Kalashnikov che spiega come siano cambiati i tempi, ecco Michele (babyboss, termine che lui non ama, non affiliato a clan, malavitoso in proprio, 22 anni, reparto di massima sicurezza a Poggioreale, condannato a 16 anni di carcere).

E poi madri che piangono, che si prostituiscono, che spacciano e ci sono anche le scorribande sui motorini con le armi spianate e i morti ammazzati per strada come Emanuele Sibillo, babyboss seccato a 19 anni dai rivali e compianto da alcuni dei ragazzini più piccoli. Il quadro che emerge (accompagnato anche da un paio di canzoni di Anthony) non è quello di Napoli, bensì di un mondo a parte, un mondo altro che non sembra avere alcun contatto con il mondo «normale».

In una sequenza la madre di Michele e di Salvatore (ergastolo) fa la posteggiatrice abusiva a porta Capuana, che fatica a farsi capire da chi parcheggia e punta alla macchinetta per pagare, ma quando arrivano i vigili e piazzano le loro multe lei vede messa in discussione non solo la sua singolare professionalità bensì la sua stessa concezione del mondo e si rivolge al vigile chiedendogli se non abbia, anche lui, figli da mantenere. Non c’è risposta. Né dal vigile né da una realtà che sembra quasi compiaciuta nel vedere che quei cascami di società si autoemarginino da soli, sparandosi e facendosi rinchiudere in carcere.

C’è solo un fratello di Michele e Salvatore che l’ha sfangata, minacciato dai rivali della famiglia respinge le provocazioni perché lui è pizzaiolo. Verissimo ma non sufficiente per poter campare laggiù, gli tocca emigrare a Parigi, come un reietto, cancellato dallo stesso Michele che non vuole più sentire parlare di lui, che per questo si dispera.

Colpisce la naturalezza con cui concezioni non solo apparentemente spaventose trovano invece logica e albergo in ragazzini imberbi, cresciuti in ambienti in cui quello malavitoso è forse l’approdo più immediato e facile, perché anche se non frequenti la scuola dell’obbligo non succede nulla, perché una pistola sporca, che ha già compiuto reati, la trovi facilmente, e non è poi così difficile trovarne una nuova, di quelle che sarai tu stesso a sverginare con un reato, per non parlare del kalashnikov, meglio anche di Belèn.