La crisi del governo Conte bis e sfociata nell’incarico a Draghi è stata caratterizzata da preoccupanti anomalie costituzionali.

In primo luogo, come ha già ricordato Luigi Ferrajoli su questo giornale, la crisi è stata aperta dalle dimissioni di un Presidente del Consiglio che aveva appena ottenuto la fiducia delle Camere (maggioranza semplice al Senato e superiore a quella assoluta alla Camera).

Quand’anche il Senato avesse respinto la relazione del Ministro della giustizia, ciò non avrebbe comportato l’obbligo di dimissioni del Governo, come espressamente prevede l’art. 94, c. 3, Costituzione, ma la necessità di rivedere alcuni indirizzi in materia.

Le dimissioni quindi non erano dovute ma sono state un atto politico, maldestramente incoraggiato dai partiti della maggioranza, che ha inaugurato una crisi di governo extraparlamentare.

La seconda anomalia riguarda le caratteristiche assunte dal mandato esplorativo, non per responsabilità del Presidente della Repubblica e del Presidente della Camera, ma delle delegazioni dei partiti che hanno discusso non solo di programmi, ma anche di nuovi ministri e incarichi di governo senza che vi fosse un Presidente incaricato al quale sarebbe spettato di affrontare tali questioni con le forze politico-parlamentari, come si desume dall’art 92, c. 2, Costituzione, secondo il quale è il Presidente del Consiglio a proporre i ministri sottoposti alla nomina del Capo dello Stato.

In questo modo si è data l’occasione a Italia Viva di liquidare la maggioranza e il Presidente del Consiglio in carica, fin dall’inizio il suo vero obiettivo.

Suscita sconcerto che personalità e correnti politiche favorevoli alla netta prevalenza del Presidente del Consiglio, fino al punto di proporne un’elezione popolare di diritto o di fatto di stampo plebiscitario, abbiano potuto accettare senza battere ciglio il ridimensionamento dei poteri che la Costituzione gli attribuisce, com’è avvenuto anche nel corso del mandato del Presidente Conte, al quale talvolta è stato contestato il potere di direzione della politica generale del governo previsto dall’art. 95, c. 1. Costituzione.

Infine, il conferimento dell’incarico a Draghi non è cero un’anomalia costituzionale, ma è avvenuto senza che il Presidente della Repubblica provvedesse ad un nuovo, anche rapido, giro di consultazioni al fine di saggiarne la disponibilità ad appoggiare il “governo di alto profilo” caldeggiato.

Ciò determina grandi incertezze sulle caratteristiche che il nuovo governo dovrebbe assumere.

Intanto sarebbe ora di abbandonare definizioni improprie purtroppo frequentemente utilizzate, come quella di “governo del Presidente”, che, al di là del ruolo più o meno significativo svolto dal Capo dello Stato nella nascita di un governo, allude a un indirizzo politico presidenziale in contrasto con la forma di governo parlamentare.

In concreto si potrebbe avere un governo di unità nazionale a guida tecnica ma composto in tutto o in larga parte da ministri politici. Tuttavia è difficile immaginare che possano convergere sullo stesso programma partiti che hanno posizioni incompatibili su varie questioni: natura degli interventi economico-finanziari, superamento delle accresciute disuguaglianze e tutela del lavoro e degli strati sociali più deboli, finanziamento dei servizi pubblici, politica della immigrazione e, a livello istituzionale riforma elettorale e autonomia differenziata.

In alternativa potrebbe essere costituito un governo composto interamente o in larga maggioranza da personalità non rappresentative dei partiti politici e con un programma non concordato preventivamente con questi.

Il ricorso, per la quarta volta dal 1992 ad oggi, ad un governo siffatto, oltre a dirla lunga sulla debolezza della politica, suscita più di un dubbio, in quanto i problemi sanitari, sociali e economici non possono essere risolti con scelte tecniche che si assumono come “neutrali”.

Inoltre il tentativo di dare vita ad un governo tecnico potrebbe non scongiurare il ricorso ad elezioni anticipate che, oltre alle considerazioni di inopportunità elencate dal Presidente Mattarella, potrebbe dare la vittoria ad un’estrema destra sovranista e sostenitrice del modello della “democrazia illiberale” alla Orbán, anche grazie ad una legge elettorale con una forte componente maggioritaria e che, con l’obbligo del voto congiunto tra lista e candidato nel collegio uninominale e con le liste bloccate, pregiudica la libertà di scelta degli elettori.

In definitiva vi sarebbe il rischio che tra i due poli, rappresentati dalla destra estrema e da un orientamento di governo tecnocratico, la Costituzione resti schiacciata e ininfluente, una situazione che potrebbe condurre la crisi della democrazia in Italia a esiti disastrosi.