L’epitaffio giusto potrebbe forse essere quello pronunciato ieri da Licio Gelli, uno che di misteri se ne intende. «Un uomo i segreti se li porta con sé», ha detto l’ex venerabile maestro della P2 parlando della morte di Giulio Andreotti.

Sì perché negli oltre cinquant’anni di vita trascorsi ai vertici della politica italiana, il senatore a vita Giulio Andreotti di segreti deve averne conosciuti parecchi. Al punto da esserne stato perfino travolto, finendo per ben due volte sul banco degli imputati con accuse pesantissime: di aver intrecciato rapporti con la mafia e di essere stato uno dei mandanti dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Per poi uscirne alla fine in entrambi i casi con una sentenza di assoluzione (per quanto riguarda la mafia accompagnata anche da una prescrizione) senza però che le ombre che hanno accompagnato la sua vita politica si dissolvessero completamente. Anche perché quando la Cassazione confermò la sentenza con cui i giudici della Corte di Assise di Palermo lo avevano prosciolto dal reato di associazione mafiosa a partire dal 1982 dichiarando però prescritto quello di associazione per delinquere commesso almeno fino al 1980, confermarono anche come Andreotti ebbe «rapporti di amichevole disponibilità» e di «concreta collaborazione» con Cosa nostra almeno fino al 1980.

A comunicare ad Andreotti di essere indagato per mafia dalla procura di Palermo, è l’allora presidente del Senato Giovanni Spadolini. Siamo nel marzo del 1993 e sulle pagine di tutti i giornali dominano le vicende legate a Tangentopoli. L’accusa nei confronti di Andreotti è pesantissima: concorso esterno in associazione mafiosa, poi trasformato in associazione mafiosa. A suo carico il capo della procura Gian Carlo Caselli e i sostituti Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli hanno messo a punto un dossier di 264 pagine nel quale si afferma che Andreotti avrebbe «contribuito non occasionalmente alla tutela degli interessi e al raggiungimento degli scopi dell’associazione per delinquere denominata Cosa nostra». Il 27 marzo arriva al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere, che viene concessa due mesi dopo, il 13 maggio, su richiesta dello stesso Andreotti. Il «processo del secolo» comincia il 26 settembre del ’95 nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone. Contro Andreotti ci sono le dichiarazioni rese ai magistrati da 37 pentiti, tra i quali Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia. L’accusa chiede 15 anni di reclusione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. La camera di consiglio dura undici giorni, e il 23 ottobre del 1999 i giudici assolvono Andreotti seppure con formula dubitativa.

Nel processo di appello, che prende avvio il 19 aprile del 2001, un altro pentito, Balduccio Di Maggio, parla del presunto bacio tra Totò Riina e Andreotti, a dimostrazione dell’esistenza di una reciproca fiducia, un episodio che però non mai stato provato. «Non mi piace baciare gli uomini», sono le sole parole con cui il sette volte premier replica al pentito. Questa volta l’accusa, sostenuta dalle pm Anna Maria Leone e Daniela Giglio, chiede una pena a dieci anni. La sentenza conferma invece l’assoluzione per Andreotti. La definitiva parola fine la dice la Cassazione a dicembre del 2004, con la conferma della sentenza di secondo grado.

Assolto, ma le sentenze mettono in risalto le relazioni pericolose idi Andreotti. Relazioni che hanno origine nel rapporto che Andreotti ha con Salvo Lima, suo capocorrente in Sicilia e – secondo l’accusa – tramite con Cosa nostra. E negli incontri che Andreotti avrebbe avuto con Stefano Bontade si sarebbe parlato anche di Piersanti Mattarella. Il presidente della regione Sicilia dava fastidio alla mafia per l’opera di rinnovamento che stava portando avanti, e il boss l’avrebbe comunicato ad Andreotti che però non riuscì a fare nulla per impedirne l’uccisione.

Il processo per mafia si intreccia con quello per l’omicidio Pecorelli. A tirare in ballo Andreotti è Tommaso Buscetta che lo indica come il mandante dell’omicidio del direttore di Op assassinato il 20 marzo del 1979. Imputati con Andreotti sono, tra gli altri, anche il senatore Claudio Vitalone. Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò. Assolto in primo grado, il senatore viene condannato a 24 anni nel processo d’appello per essere definitivamente assolto dalla Corte di Cassazione che, anche in questo caso, mette definitivamente fine alle accuse contro di lui.