L’Università italiana è ormai malata da tempo, malata di conformismo, di mancata competitività e trasparenza, con barriere all’ingresso per gli esterni rispetto agli interni. Barriere che diventano sempre più alte quanto più cresce il rango accademico, riconoscendo all’anzianità un peso eccessivo in qualunque decisione.

Un’opinione ormai diffusa sul piano internazionale, ma anche tra i cittadini, è il disastro, dovuto al mancato rispetto delle leggi da parte del mondo universitario. La mancanza di integrità accademica inibisce l’accesso ai poveri, diminuisce l’equità dei servizi educativi, indebolisce la mobilità e la coesione sociale.

La ragione principale non è attribuibile alla mancanza di moralità dei singoli docenti, ma all’eccessiva autonomia degli Atenei. Tutti i mali dell’attuale sistema, infatti, derivano dalla Legge 210/1998, ulteriormente peggiorata dalla Legge 240/2010, la quale oltre a favorire logiche sempre più corporative e spartitorie, ha comportato una scandalosa deriva burocratica-localistica e un inarrestabile abbassamento del livello scientifico e formativo.

I rettori, divenuti veri e propri despoti, di concerto con i direttori dei dipartimenti, determinano i meccanismi di scelta della classe accademica attraverso metodi clientelari e una cooptazione non virtuosa, mascherata da finta selezione pubblica. La pericolosità di tale modello estremo di autonomia emerge soprattutto dalle centinaia di sentenze amministrative e penali che certificano il fallimento di questo sistema universitario.

Confortati dalle considerazioni dei giudici, vale la pena di osservare che si tratta di metodi che scardinano alla radice il sistema del pubblico concorso (art. 97 della Costituzione) e il principio dell’imparziale determinazione dei criteri selettivi. Stando così le cose, il reclutamento dei docenti italiani rispetto altri paesi europei, in termini di trasparenza delle regole, valorizzazione del merito, capacità di stimolare la produttività e la qualità attraverso incentivi, ne esce con le ossa rotte.

Tuttavia, nonostante tutte queste evidenze, pare che l’Accademia italiana si consideri legibus solutus. Il punto cruciale è la distorsione delle procedure di reclutamento quasi sempre pilotate e predeterminate. A tal riguardo, l’associazione “Trasparenza e Merito” ha avanzato proposte concrete: ruolo unico della docenza universitaria; cancellazione dei concorsi locali; commissione nazionale sorteggiata; criteri di valutazione con una precisa griglia ministeriale; multe e procedimenti disciplinari per chi commette reati; diminuzione dei fondi ordinari per gli atenei scorretti (non si può demandare tutto alle magistratura ma occorre etica pubblica).

Ma il vero nodo da sciogliere rimane comunque la governance, il sistema di governo e le regole di controllo degli atenei. In nessun altro Paese al mondo l’Università è pagata dai contribuenti, ma gestita dai soli docenti universitari, secondo un modello autoreferenziale, senza rendere conto né al Ministero, né agli studenti e alle famiglie.

Se negli Usa/UK esiste un equilibrio tra il potere dei docenti, espresso dal Senato accademico, e quello esterno, espressione della società, rappresentata dal Board of trustees, nei paesi nord-europei, invece, si è imboccata la strada opposta all’autonomia universitaria, con nomina politica (ministeriale o regionale) dei vertici.

In Italia l’attuale normativa lascia a ogni singola istituzione il compito di stabilire le norme, attraverso il proprio regolamento interno. L’elezione dei vertici e del Rettore avviene secondo procedure feudali e oligarchiche, basandosi sul meccanismo del “voto ponderato”, che sancisce il diritto di voto con prevalenza assoluta di peso per i docenti strutturati, penalizzando quelli a contratto e i ricercatori che svolgono da precari gran parte dell’attività didattica e di ricerca, il personale tecnico-amministrativo, nucleo fondante dell’attività organizzativa, e soprattutto gli studenti che sono l’asse portante (pagano le tasse!) della vita universitaria.

Oltre ad un meccanismo di elezione del Rettore quanto più aperto possibile (una testa un voto), occorre rendere tale meccanismo corroborato da parametri di merito e competenze specifiche, prevedendo un sistema di pre-requisiti per entrare a far parte della rosa dei candidati a Rettore.
Sarebbe una vera e propria riforma radicale, una rivoluzione che renderebbe l’Università italiana non medievale e gerarchica bensì moderna e democratica.

 

*Associazione “Trasparenza e Merito”