Quando nel 1990 Zero maggio a Palermo, scritto da Fulvio Abbate, compare per la prima volta racconta in maniera formidabile un periodo istantaneo che precede il crollo e anticipa la disillusione.
Un romanzo di post-formazione, ora ripubblicato per La nave di Teseo (pp. 218, euro 17, postfazione di Giorgio Vasta), in cui non è la crescita l’elemento cangiante di un percorso intellettuale, politico e formativo che coinvolge i due giovani protagonisti, bensì l’attesa che viene prima della scomparsa; Ale e Dario sono infatti immersi in una onirica quanto palpabile Palermo di fine anni Settanta, in cui il comunismo celebra i suoi riti all’italiana e le sirene dell’anarchia si mischiano con nuovi seducenti amori mentre sullo sfondo si impone ingombrante e invalicabile l’epica dei Beati Paoli.

PALERMO diviene così il contenitore di un’attesa che precede l’addio a un secolo, un tempo in cui pareva ancora possibile un riuso del passato remoto per dare forma a un momento nuovo o, in un certo senso, semi nuovo. Primeggia il linguaggio denso di Abbate che si diffonde tra le pagine, capace di restituire e reinterpretare il mondo letterario della tradizione nella sua agile complessità lessicale come nella costruzione sintattica estremamente poetica – tanto nella sua dolcezza quanto nelle sue asprezze. Un linguaggio che si rivela ultimo nel suo disperato tentativo di dare voce ad una letteratura ormai privata di politica, territorio e certamente anche di popolo visti i pochi lettori ormai abbandonati in nicchie sempre più periferiche rispetto ad un dibattito del tutto inconsistente.

IL LINGUAGGIO dunque non come mero esercizio del racconto ma nella sua ostinata resistenza, appiglio disperato verso quella scomparsa già all’orizzonte e che vedrà di lì a poco non solo infrangersi i sogni utopici e in parte sciocchi dell’ideologia, bensì anche le biografie intime che fecero del Novecento un secolo complesso e controcorrente in cui il conformismo e la libertà di posizione furono nonostante tutto una bandiera di rispetto e di confronto.
Zero maggio a Palermo si ritrova a ventisette anni dalla sua prima edizione a tracciare un percorso utopico eppure possibile che la letteratura italiana avrebbe potuto imboccare. Così non è stato, ma è proprio nel non essere e nella sua impossibilità che il romanzo di Abbate prende vita e indica un nuovo spazio possibile in cui l’assenza si fa essenza di un possibile ritorno.