Con il recente bando per la restituzione dell’arena al Colosseo il dibattito ha ripreso quota sul manifesto con l’intervista di Valentina Porcheddu a Jean-Claude Golvin e con un articolo di Rossella Rea su Left. Due testi molto istruttivi per cogliere gli aspetti paradossali di questa lunga vicenda, nella quale vengo periodicamente coinvolto. Primo paradosso: riprendendo il pensiero di Rea, per molti anni esperta direttrice del Colosseo, anche a Golvin pare evidente che il ripristino del pavimento «rischi di provocare danni alle strutture sottostanti, compromettendo anche la loro trasformazione in un museo dedicato alla storia dell’edificio». Insomma c’è un problema di tutela.

Dov’è il paradosso? Nel fatto che quei sotterranei, portati definitivamente alla luce dagli sterri di ottanta anni fa, che sottrassero al monumento il suo piano di calpestio, sono rimasti esposti alle intemperie per quasi un secolo, tanto che il loro recente restauro ha comportato interventi assai delicati e costosi. Per decenni sembra che nessuno si sia accorto del danno provocato al monumento da quella improvvida longeva esposizione. Se ne accorgono adesso che quelle strutture delicatissime le si vuole proteggere ridando loro il tetto che avevano. Secondo paradosso: un architetto esperto di anfiteatri sostiene che ridare un tetto ai sotterranei (architettura progettata per vivere e funzionare sotto terra) impedirebbe la loro trasformazione in museo di se stessi (bellissimo progetto che trova fortunatamente tutti concordi), che invece sarebbe possibile se rimanessero esposti all’acqua, al sole e al vento: ma non ci spiega perché.

Dietro a queste perdite di bussola, c’è una ossessiva paura per una destinazione della nuova arena a luogo di spettacolo. Personalmente la prospettiva non mi appassiona. Roma non ha particolare bisogno di nuovi palcoscenici. Ma una arena restituita alla sua funzione di «piazza pubblica» perché mai non potrebbe accogliere di tanto in tanto qualche cerimonia particolarmente significativa per la nostra comunità nazionale? Non sarebbe anche il modo per restituire ai cittadini e alle istituzioni l’uso di uno spazio che oggi gli è di fatto sottratto? Se la risposta è: «No. Il Colosseo è un luogo della cultura (quale?) e tale deve rimanere!» ecco il terzo paradosso. In nome della sacralizzazione di un luogo, che non può essere contaminato dalla vita presente, si perde la memoria dell’uso sociale che lo ha reso vivo per due millenni, e lo si abbandona ai riti desolanti del turismo culturale di massa. Tutti contenti. Milioni di turisti ignari sfilano davanti ai muri che si sgretolano sotto il cielo, e l’anima e salva. Quale?