Quando si dice: molto fumo e poco arrosto. L’aggiunta di aromi a un cibo confezionato serve a recuperare sapori che sono andati perduti nei processi di produzione, per esaltare alcuni ingredienti e soprattutto per standardizzare i prodotti. A differenza dei coloranti, gli aromi non rientrano nella categoria degli additivi alimentari: sono classificati a parte perché, per la loro complessità, è impossibile stabilire una «Dose Giornaliera Ammissibile», cioè la quantità che può essere ingerita giornalmente per tutta la vita senza rischi per la salute.

Per essere immessi sul mercato devono essere approvati dall’Efsa (l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare) che negli ultimi anni ha aggiornato la folta lista degli aromi già utilizzati, dichiarandone sicuri 2000 circa, mentre per 82 attualmente sono in corso ulteriori verifiche. Il controllo è stringente, anche perché i prodotti a più alto contenuto di aromi sono spesso quelli destinati a bambini e ragazzi, nella fase delicata della crescita, che chiedono sapori e aromi decisi, dato che sono meno sensibili alle sfumature di gusto.

La ricerca dell’aroma perfetto alimenta un settore industriale che solo in Europa fattura 3 miliardi di euro l’anno, circa un terzo del giro d’affari globale e impiega 10mila persone. Abbiamo cercato di parlare con gli addetti ai lavori, ma nessuna delle 5 industrie italiane interpellate ha voluto rispondere. Sarà perché soltanto il 5-10% degli aromi che si producono sono di esclusiva provenienza naturale e i consumatori sono sempre più sensibili all’argomento?

Occorre qui aprire una parentesi sull’utilizzo del termine «naturale», che di per sé non significa granché dal momento che la chimica degli aromi è particolarmente complessa e sfugge a facili classificazioni e quindi il termine può dare luogo a fraintendimenti.

«Gli aromi naturali sono ingredienti che si ottengono da piante, frutti, fiori, foglie e animali. Oppure, attraverso l’azione di enzimi o microrganismi – spiega Ferretti – Quando leggiamo quindi aromi naturali in un arrosto non è corretto pensare che sapore ed odore siano impartiti semplicemente dalla carne. Essi potrebbero avere origine da derivati dell’alimento o anche da sostanze ottenute con un processo microbiologico (lieviti, batteri…) o enzimatico. In entrambe queste situazioni ci si prefigge di sintetizzare molecole simili a quelle prodotte in natura durante la cottura».

Tutto o quasi dipende dal metodo di estrazione, che dipende dai costi di produzione, che dipendono dalle rese. «Gli aromi naturali possono essere estratti da piante o frutti con l’utilizzo di solventi organici – ci spiega Gianluca Picariello, ricercatore del Cnr-Istituto di Scienze Alimentari di Avellino – questo è il metodo più economico ma anche più critico perché i solventi possono lasciare tracce e devono essere rimossi perché l’aroma sia sicuro. Esistono altri metodi più sicuri, ma più lenti e più costosi, come la distillazione in corrente di vapore che cattura le sostanze aromatiche per azione del vapore acqueo, sotto vuoto. Così si producono gli aromi naturali dagli agrumi e gli olii essenziali da fiori e piante». Per avere un’idea delle rese, servono 100 kg di arance per ottenere 300 grammi di olio essenziale dalle scorze e 10 grammi di essenza dalla polpa.

Risulta chiaro perché l’industria degli aromi ha fatto largo uso dei laboratori di chimica per sintetizzare composti che oltre a costare molto meno, sono anche più stabili e talvolta più persistenti di quelli che si trovano naturalmente negli alimenti. C’è stato un periodo, gli anni Sessanta e Settanta, in cui i prodotti dell’industria alimentare erano percepiti come più sicuri, più controllati e per certi aspetti persino migliori di quelli offerti dalla natura. Da almeno un decennio, tra inquinamento, frodi e scandali, la fiducia nel naturale è in decisa risalita, malgrado il livello di conoscenza e consapevolezza sia vago su tematiche così complesse.

La ricerca in questo campo è orientata a trovare nuove tecniche di estrazione più economiche e più sostenibili. «Estraendo le sostanze aromatiche mediante l’uso di anidride carbonica in fase supercritica – spiega ancora Picariello – non restano tracce di solventi o di altri composti nocivi e nemmeno si alterano le molecole perché non si utilizzano alte temperature. Le tendenze più promettenti della ricerca vengono da una parte dal recupero di sostanze aromatizzanti da sottoprodotti di lavorazioni alimentari, in particolare dagli scarti della frutta, dall’altra dall’utilizzo delle biotecnologie».

Se i processi chimici tradizionali hanno in genere bisogno di alte temperatura e pressione, con le biotecnologie si sfrutta l’azione di batteri, lieviti, in genere microrganismi che lavorano in condizioni di temperatura e pressione normali, quindi hanno bisogno di meno energia, producono meno scarti e sono più facilmente biodegradabili. «Si cercano ceppi specifici di batteri e lieviti che attraverso la fermentazione possano produrre sostanze aromatiche o degli opportuni precursori, cioè sostanze che gli enzimi trasformano in aromi – dice Picariello – sono gli stessi processi che si stanno già utilizzando nell’industria casearia per diminuire i tempi di stagionatura dei formaggi in quanto accelerano notevolmente il naturale sviluppo di molecole aromatiche, o che si usano da tempo nei processi di vinificazione. Con le biotecnologie si possono produrre aromi più sicuri a partire da materie prime rinnovabili, quali gli scarti agroindustriali di produzione dello zucchero, le biomasse di soia, la crusca di vari cereali. Verso questi nuovi metodi c’è un po’ di diffidenza, immotivata, a mio parere. La produzione biotecnologica di aromi negli alimenti è infatti sfruttata più o meno consapevolmente da millenni. Certo è che in questo campo innovazione e tradizione non si conciliano facilmente. Del resto l’evoluzione degli ultimi 20 anni è stata rapidissima, e difficile da metabolizzare».

Rimane aperta la domanda iniziale: perché utilizzare così massicciamente gli aromi? Lo dice anche il regolamento europeo 1334/2008 che gli aromi «non dovrebbero essere utilizzati in modo tale da indurre in errore il consumatore su questioni concernenti, tra l’altro, la natura, la freschezza, la qualità degli ingredienti impiegati, la genuinità del prodotto, il carattere naturale del processo di produzione o la qualità nutrizionale del prodotto».