Azzy Williams è poco più di un bambino quando, a quattordici anni, entra a far parte della gang dello Young Team. Del resto nelle cittadine del Lanarkshire, la cintura periferica dell’area urbana di Glasgow, i capi delle bande non arrivano ai vent’anni, mentre gli adepti più giovani sono reclutati direttamente tra le classi delle elementari. In una realtà sociale esplosa che da decenni non offre alcuna chance a questi cuccioli d’uomo induriti dalla vita di strada, le gang sostituiscono spesso la famiglia e la comunità, offrendo in un abbraccio violento fatto di risse, coltelli, droga e alcol – il più diffuso da queste parti è il Buckfast, un vino liquoroso prodotto nell’omonima abbazia benedettina del sud dell’Inghilterra – quel senso di appartenenza, calore e solidarietà altrove negato.

Di questa vita scandita dalle morti violente e da un inesauribile febbre autodistruttiva Azzy percorrerà tutte le tappe fino a rendersi conto che l’affetto, la stima di sé e il senso di fratellanza si possono, forse, trovare anche al di fuori di una banda. Un percorso simile a quello seguito da Graeme Armstrong, cresciuto in questa zona e entrato giovanissimo a far parte degli Young Mavis, autore de La gang (Guanda, pp. 400, euro 19, nella preziosa traduzione di Massimo Bocchiola), esordio dell’anno nel Regno Unito, dove tra romanzo di formazione e memoir racconta i suoi anni di strada e il modo in cui è riuscito, grazie alla fede e alla scoperta della letteratura, ad uscirne. In qualche modo, il diario di un sopravvissuto che oggi, a soli trent’anni, può raccontare, «sono nove anni che non uso droghe e sei che non bevo. È iniziato tutto alla fine del 2012, mia madre lo chiama ancora “il miracolo di Natale”. E forse lo è stato davvero».

Cosa spinge un ragazzo di tredici, quattordici anni ad entrare a far parte di una gang?
Penso siano molte le ragioni per cui i giovani si uniscono a questo tipo di bande, a cominciare dalla povertà. È raro che i ragazzi delle classi medio-alte vaghino per le strade armati d coltelli e spacciando droga. Invece, questi giovani uomini crescono nelle comunità della Scozia postindustriale, e le loro traiettorie di vita hanno aspettative molto basse. Ma pur non avendo successo a scuola o sul lavoro, come i loro coetanei più abbienti, all’interno di una gang possono eccellere. È un contesto che offre sicurezza e protezione, creando una patina di avventura, fratellanza e orgoglio: anche se poi la realtà è raramente così affascinante. Trovano infatti violenza, dipendenze, traumi, suicidi e omicidi… e una strada molto difficile da cui tornare indietro. Ed è per questo che in molti non hanno avuto tale fortuna.

Dopo aver vissuto tre anni lontano Azzy torna nella sua città natale, nella cintura della «Grande Glasgow», e riflette sul fatto che questa zona piena di negozi chiusi e di attività abbandonate «sembra la Bosnia», un luogo che ha la capacità di «smontare le trasformazioni, di spegnere i sogni». Per questo lui e i suoi amici sono intrappolati nella vita della gang?
Assolutamente. Le realtà urbane del North Lanarkshire ruotano intorno a centri storici dimenticati, che negli ultimi trent’anni sono andati letteralmente in rovina. Da queste cittadine non si leva più alcun segnale luminoso che fornisca anche solo l’accenno dell’esistenza di un’altra realtà; sono diventate come dei labirinti da cui è difficile fuggire. E la fragilità del luogo si riflette su chi vi abita: le persone pensano di non valere nulla e non coltivano più alcuna speranza. Ed è difficile mettere radici altrove dopo aver vissuto a lungo in questo modo. Le esperienze che ti porti dietro ti allontanano da potenziali nuovi amici e dall’idea di inventarti un’altra vita. Mi sono trasferito a Londra, ma poi sono tornato in Scozia. Il mio esodo non ha trovato una Terra Promessa: sto ancora cercando.

La diffusione delle gang e della violenza giovanile è da tempo tra le principali fonti di allarme sociale nel Regno Unito, e in modo particolare in Scozia. Perché il fenomeno è così diffuso e quale effetto ha avuto fino ad ora questo tipo di campagna mediatica?
I titoli allarmistici dei giornali di Londra e Glasgow sull’aumento delle gang e delle aggressioni con l’uso di coltelli hanno creato l’effetto desiderato: demonizzare i gruppi di giovani della working class e trattarli alla stregua di teppisti violenti cui rispondere con più polizia, perquisizioni e arresti. Senza contare la diffusione degli stereotipi e la stigmatizzazione. Tuttavia, dopo che l’Organizzazione mondiale della sanità definì Glasgow come la «capitale europea degli omicidi», si sono registrati anche dei passi avanti positivi.

Penso in particolare alla nascita nel 2005 della Violence Reduction Unit della polizia di Glasgow che ha iniziato a considerare la violenza di strada come un problema di salute pubblica. Nei rapporti redatti da questa struttura si afferma che la violenza si diffonde da persona a persona come una pandemia, ma anche che la trasmissione potrebbe essere interrotta e rallentata. Così, se la prima esposizione alla violenza per molti dei futuri membri delle gang avviene in famiglia, a causa degli abusi domestici, si è capito che aiutando le madri con bambini piccoli a trovare lavoro, assistenza e relazioni migliori, il trauma subito dai ragazzi può diminuire, riducendo anche il rischio di esiti violenti nel loro futuro.

Gli interventi di questa Unità speciale hanno portato ad una diminuzione degli omicidi del 50% in un decennio, molte vite sono state salvate e molti ex membri delle gang sono stati aiutati a prendere un’altra strada. Anche se ora, purtroppo, la situazione è tornata ad aggravarsi e solo poche settimane fa un ragazzo di soli quattordici anni è stato ucciso in una rissa. In molti considerano erroneamente la violenza come una malattia, ma è solo un sintomo. La vera malattia è la povertà, e quella non sta scomparendo, anzi si è diffusa ancor di più. In Scozia un bambino su quattro vive in condizioni di povertà, mentre nell’area di Glasgow, la cifra sale ad uno su tre.

«La gang» racconta la storia di questi luoghi dal punto di vista di un gruppo di giovani, ma in realtà sono i loro genitori, nonni, vicini di casa, una fetta consistente della società scozzese a popolare queste pagine al loro fianco.
La cultura delle gang vanta una sorta di albero genealogico in Scozia. Già i nonni di alcuni ragazzi erano nella loro stessa banda decenni prima e ci sono gang che hanno raggiunto lo status di culto nel corso del tempo. Si tratta di un fenomeno che è parte integrante della cultura della classe operaia di qui. Le famiglie dei membri delle gang sono ben consapevoli di ciò che fanno questi ragazzi e le conseguenze delle loro azioni spesso ricadono sui loro parenti più stretti. Da queste parti non si soffre mai in solitudine. Le gang sono cresciute dentro queste comunità: gli adulti ci vendevano le droghe, ci compravano gli alcolici e talvolta incoraggiavano questi nostri comportamenti. Dovrebbe esserci invece una responsabilità collettiva e condivisa per aiutare i giovani a ottenere di più dalle loro vite e a compiere dei passi positivi invece che verso la violenza. Per questo ora lavoro all’interno del sistema carcerario e con le scuole per aiutare a educare e a raggiungere i ragazzi con segnali di altro tipo.

Il libro si basa almeno in parte sulla sua storia. Ad allontanarla dalla gang è stata la scoperta della letteratura e la voglia di scrivere. Ma cosa resta dei legami costruiti per strada quando si smette di fare parte di una banda?
Il Young Team del romanzo assomiglia molto alla mia vita e alla gang di cui ero membro. Anche se la fiction vuole la sua parte e i libri di memorie possono essere ben più oscuri e spaventosi di ciò che ho scritto, pieni di vicoli ciechi e senza alcun lieto fine. Il risveglio nella mia vita è venuto dalla lettura di Trainspotting. Prima ho iniziato ad interessarmi ai libri, quindi al modo di raccontare la mia vita e il mio percorso. Non posso certo dire di essere stato aiutato dagli insegnanti, dalla polizia e dalla comunità: era stato scartato come spazzatura. Ma questo ha acceso un fuoco dentro di me: una determinazione a convincere loro, e me stesso, che ero degno di una vita diversa. Ho iniziato a lottare per mettermi alla prova, e questo implicava lo studio. La mia lotta con la salute mentale e la scrittura del romanzo hanno richiesto più di sette anni, ma poi tutto è cambiato e la mia vita è stata trasformata. Anche grazie alla fede. Quanto al rapporto con la gang, una banda si può sciogliere ma il legame resta. Oggi cerco di fare da mentore agli amici riguardo a droghe e alcol e li aiuto a fare scelte ponderate poiché in molti hanno ormai dei figli di cui prendersi cura. Ma anche quando non seguono i consigli che do loro, restano sempre miei fratelli. Ero uno Young Mavis un tempo e lo resterò per sempre.