Ai suoi esordi Joyce Carol Oates si dedicò a una serie di cronache americane convergenti sul declino etico-sociale in cui, a suo avviso, il suo paese versava dopo la svolta di metà secolo. Dall’osservazione del presente lei girava lo sguardo indietro per individuare i fattori che sotto pelle avevano lavorato fino a rodere la sfolgorante armatura di facciata con cui gli Stati Uniti si prestavano a guidare il mondo del secondo Novecento. Nasce così, tra il 1967 e il 1971, in un fluire inarrestabile di pagine, il quartetto Wonderland, un’Epopea americana che, prendendo le mosse dagli anni post-bellici e dai residui della Depressione, approdava ai disordini di Detroit del 1967, descritti in Quelli (1967), il più famoso dei quattro romanzi e l’unico tradotto in italiano.

Di recente Il Saggiatore ha programmato il recupero dell’intero progetto, pubblicando i primi due volumi della serie: Il giardino delle delizie (traduzione di Francesca Crescentini, pp. 520, Є 21.00) e I ricchi (traduzione di Grazia Bosetti, Valeria Gorla, Camilla Pieretti, Sara Reggiani, pp. 329, Є 18,00). Rappresentazioni di mondi in apparenza diversi, entrambi puntano a cogliere lo stesso obiettivo. Perché, infatti, Oates si apprestava allora a fare ciò che nessun altro scrittore americano aveva tentato prima, ovvero esaminare la realtà americana coeva, avvicinandola dai bastioni delle sue maggiori componenti sociologiche: la mitica America rurale in degradata estinzione, quella urbana, povera e etnicizzata, e quella suburbana. Quest’ultima rappresentava a quei tempi l’America dei ricchi nuovi e vecchi, che iniziavano a occupare uno spazio fisico intermedio tra un’urbanizzazione malversata dalla violenza delle relazioni di classe e l’idillio di una natura addomesticata. Nessuno dei grandi predecessori dal respiro epico vantava esperienze così articolate nell’analisi di precise costituzioni identitarie e di competenze in tre diverse realtà di stratificazione del corpus sociale. Né Faulkner, né, tanto per fare un paio di altri nomi plausibili, Sherwood Anderson o Thomas Wolfe.

Il progetto è ambizioso ma Oates, proveniente da origini contadine nella parte settentrionale dello Stato di New York, allora residente nell’industrializzata Detroit, e spietata osservatrice della casta dei ricchi, poteva permettersi di affrontare l’impresa che tentò con il Wonderland Quartet. L’operazione non fu del tutto perfetta, al punto che, quando nel 2002 l’American Library decise di ripubblicare la tetralogia, lei si dedicò a una quasi totale riscrittura di almeno uno dei quattro romanzi: Il giardino delle delizie, il più storicizzante, e forse quello a cui allora ella teneva maggiormente, anche perché in trasparenza, decenni dopo, vi leggeva in parte la propria storia famigliare. Ed è forse per tale ragione che nell’opera di revisione ella si preoccupò della rifinitura psicologica dei personaggi senza curarsi molto, per esempio, delle coordinate temporali, che risultano amplificate in un arco fittizio di cinquant’anni, l’età che la protagonista, l’ambiziosa e bellissima Clara (il nome è simbolico e ironico) raggiunge nel finale. Clara nasce, come tanti bambini della Depressione, in un canale di scolo del Midwest e finisce nei primi anni sessanta, ricca e sconfitta dagli eventi che essa stessa ha determinato, in una casa di cura di una città del Nord, dove vegeta davanti alla neonata televisione.

Diviso in tre parti intitolate ai tre uomini più influenti della sua vita – il padre Carleton Walpole, il primo amante, Lowry, che la ingravida e l’abbandona, e il figlio Swan –, nella vastità del suo impianto, Il giardino delle delizie è davvero un romanzo epico nel vecchio senso, capace per di più di ritrarre entrambi i volti dell’America rurale: quella dei poveri (il white trash), da cui Clara proviene, e quella dei ricchi, i possidenti degli ultimi grandi appezzamenti di terreno agricolo, a cui ella si consegna. La prima parte, la più evocativa – ma la meno di prima mano – sembra risentire dell’afflato del sulla strada tragico di Steinbeck nel suo disegnare l’odissea dei Walpole, raccoglitori stagionali di frutta, in movimento dal nativo Kentucky – che non rivedranno mai più – prima nell’Arkansas, dove, in una scena magistrale, degna di entrare da sola nel canone, nascerà Clara, e poi in un sempre più cieco e perversamente infernale errare coattivo verso Ovest, verso Nord, Sud, in Georgia, Florida, fino a cancellare, con il trascorrere degli anni, una qualsiasi idea di casa e di nucleo famigliare.

Da questo background, dominato da un padre ubriacone e violento, matura la Clara adolescente decisa a scoprire una vita diversa, quando si dà a una fuga libertaria, insidiata da pericoli e umiliazioni, fino al momento in cui troverà pace come amante, e poi moglie, di un ricco proprietario terriero nella Eden Valley dello Stato di New York, dove un’altra America rurale resiste a trasformazioni economiche più redditizie. Da Curt Revere avrà protezione e ricchezza anche per il figlio Swan, della cui paternità Clara lo rende ingannevolmente responsabile. Nel giro di pochi anni ella conquista tutto per sé e per il figlio, anche la finzione di una famiglia allargata che riesce ad amare e governare per saggia convenienza. Ma è pura illusione. Il germe che distruggerà questa famiglia americana quasi modello – tema cruciale di tutto il canone di Oates – risulta iniettato proprio dalle ambizioni della stessa Clara, e nel nobile casato Revere fratelli e fratellastro, padre e figli si destinano a un auto-sterminio compiuto a colpi di pistola, una conclusione da risvegliato fato antico.

Resta poco giustificata la figura chiave di Swan, il personaggio da Oates più ritoccato nella revisione, forse perché, ella afferma in una Postfazione del 2002, “l’ho percepito come una sorta di alter-ego” (“Swan, c’est moi!”), il quale “finisce per respingere la via dell’immaginazione” (come lei tuttavia non ha fatto) allo stesso modo in cui quella via sarebbe stata ripudiata, continua Oates, dall’America dei decenni successivi, dando così maggior agio a un’etica corrotta e a un’“ulteriore perdita dell’innocenza di una nazione ai ferri corti con i propri ideali e con le proprie visioni magniloquenti”. Ma Swan, che uccide inspiegabilmente un buon padre e poi si suicida, e quindi è sia carnefice sia capro espiatorio di un’istituzione in crisi, pare costruito per rappresentare qualcosa di più complesso di ciò che Oates indica (il ripudio della via salvifica dell’immaginazione!), incrinando un disegno che per altro si delinea culturalmente funzionale.

Qualsiasi sia il contesto che sceglie di trattare, nel mirino di Oates restano nodali i rapporti famigliari, ruotanti sui perni dell’egoismo degli adulti e della nascita nella colpa dei bambini (il canale di scolo di Clara), i quali, dal mondo sbagliato di chi li ha generati, imparano, a modo loro, a conformarsi alla legge di logiche estreme. In questo senso, nella vena più perversa della futura Oates si inserisce I ricchi, ambientato nei suburbi esclusivi di un’innominata città del Midwest (una qualsiasi). Siamo nei subdoli anni cinquanta per seguire la grottesca messa in scena della rovinosa caduta di una giovane famiglia: una coppia disarmonica, tesa alla conquista di uno status nella casta pacchiana dei nuovi privilegiati, e il loro figlio undicenne, schiacciato dal peso di due genitori che hanno prosciugato le riserve d’amore, ma ai quali egli guarda, e dai quali impara, per agire, infine, con i mezzi di una sua genialità contaminata. Punterà il fucile sulla madre, compiendo un delitto perfetto. Nessuno – questa l’assurda cecità dell’America di allora sull’innocenza dell’infanzia! –, crederà alle sue pretese di assassino (forse neanche il lettore!), il quale, a giustificazione del suo atto, rivendica libertà e esercizio del libero arbitrio. Parole grosse per un bambino, al quale cerchiamo di credere.