Dall’antichità ai giorni nostri, la riflessione sulla solitudine ha punteggiato il trascorrere dei secoli contribuendo a porre le basi della cultura occidentale. Un pensiero che si è espresso attraverso le discipline più disparate e una notevole varietà di strumenti – dalla letteratura alla musica, dall’arte al teatro, dal cinema alla fotografia, dal web ai social media – producendo un’enorme mole di opere che consentono di analizzare il rapporto tra il desiderio di appartarsi e le società nelle quali esso ha trovato la propria ragion d’essere.

È QUANTO ha fatto Aurelio Musi che nel saggio dal titolo Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network (Neri Pozza, pp. 172, euro 17), ha ripercorso lucidamente le vicende di una scelta – o di una costrizione – esistenziale regalandoci così una disamina originale e stimolante. È importante osservare, appunto, come la vita solitaria si caratterizzi per il doppio volto che la avvicina, per un verso, a una condizione di beatitudine destinata a sublimarsi nel rapporto con la natura, a una pace interiore che induce alla meditazione e agevola l’atto creativo; per l’altro, a uno stato di angosciata malinconia che – essendo imposto – ha in sé qualcosa di inquietante e opprimente. Occorre poi sottolineare come, per riflettere sulla solitudine, lo storico prenda spunto da un gran numero di epistolari i cui celebri autori – da Rilke a Kafka, da Nietzsche a Keats fino a Poe – hanno anzitutto il merito di metterne in rilievo i molteplici aspetti, le infinite sfumature, le copiose variazioni sul tema.

Quanto alle diverse epoche, egli ci invita a conoscere meglio le tante tipologie di persone che hanno rappresentato la solitudine arrivando persino a diventarne un simbolo: nelle dense pagine di Musi ecco fare dunque la sua apparizione il viandante, il pellegrino, l’eremita, l’intellettuale desideroso di porre in essere la propria fuga mundi e il cavaliere errante ai quali – nel corso degli ultimi decenni – sono venuti ad aggiungersi il ludopatico, il tossicodipendente e il cosiddetto «lupo solitario», un individuo lucido e spietato capace di compiere gesti estremi. Figure dall’esistenza eremitica che, di recente, sono state affiancate tanto dai giovani che non studiano, non lavorano e non stanno imparando un mestiere quanto da coloro, in prevalenza maschi, che non riescono a trovare una partner e rovesciano la propria rabbia sulle donne. Nell’ambito della vita appartata, al giorno d’oggi, sembrano dunque prevalenti le deformazioni patologiche.

PIÙ IN GENERALE, si ha l’impressione che nella nostra epoca il pendolo della solitudine oscilli tra due estremi: l’esteriorità in quanto esclusivo criterio di valutazione del comportamento individuale e il rapporto narcisistico con il sé, sulla cui base si considera l’altro un pericolo costante e si tende dunque a limitarne quanto più possibile la presenza. Appare chiaro, alla luce di questo contesto, come il ricorso ai social network non costituisca che un rimedio illusorio poiché, sostiene l’autore, «quasi sempre, attraverso quei media, si conoscono persone in una curiosa penombra, dove ciascuno può essere immaginato come il nostro fragile io vuole».
Occorre invece, secondo Musi, ritornare a sé stessi. Imparare, in altri termini, a stare soli, a comprendere che la relazione con gli altri potrà realizzarsi in maniera adeguata soltanto se il singolo saprà penetrare la propria intimità. L’individuo sarà poi in grado di gettare un ponte verso il mondo esterno senza rinnegare l’oggettività del reale né la sua soggettività: solo in questo modo, integrando felicemente introversione ed estroversione, riuscirà a sviluppare in maniera armoniosa la personalità di cui dispone.