Michel David, l’autore del monumentale studio sulla Psicoanalisi nella cultura italiana, mi descrisse in un colloquio Luciano Bianciardi nei termini di un «cinghiale selvaggio» della sua Maremma. Per contro, Enzo Jannacci, nell’affettuoso ritratto consegnato al regista Francesco Falaschi, nel cortometraggio della sua biografia bianciardiana, Addio a Kansas City, dice dello scrittore: «sembrava un impiegato di banca».

I due giudizi forse meglio di altro sintetizzano il fuori posto, da cui il grossetano emigrato a Milano si è trovato a vivere. Se all’uomo di spettacolo che cantava degli eroi strampalati della «Banda dell’ortica» appariva troppo borghese, al fine letterato appariva eccentrico per motivi opposti.

La sua condizione di isolato non è separabile dalla sua fedeltà al mondo dei terrazzieri e dei minatori grossetani e insieme dal senso di colpa per la propria impotenza e la propria inadeguatezza, nel travolgimento della vita e dei costumi della intensa innovazione capitalistica del dopoguerra.

È da questa sua posizione che all’uomo derivò presto l’isolamento e poi la disperazione, mentre allo scrittore ne è venuta una fortuna intermittente. La sua bibliografia si arricchisce ora, in brevissimo lasso di tempo, di tre monografie. Arnaldo Bruni raccoglie «scritti nati perlopiù in servizio di convegni e seminari» nel volume «Io mi oppongo». Luciano Bianciardi garibaldino e ribelle (Aracne, pp.150, euro 12). Il volumetto compone un agile ritratto dello scrittore, a partire dal periodo giovanile a Grosseto, con particolare attenzione a Bianciardi e il cinema e al Lavoro culturale.

DEL PERIODO MILANESE, oltre alla Vita agra, viene soprattutto messa a fuoco, come indicato dal titolo stesso del saggio, la passione «garibaldina» di Bianciardi per il Risorgimento visto, dice Bruni, come «premessa della modernità». Nell’ampio capitolo Bianciardi garibaldino, lo studioso indaga sia le anticipazioni del tema nella narrativa del Lavoro culturale e dell’Integrazione, sia le inclusioni autobiografiche. Inoltre, si sofferma su Da Quarto a Torino per mostrarvi le riprese, che vanno dai garibaldini diventati scrittori Giuseppe Bandi e Giuseppe Cesare Abba, a scrittori come Ippolito Nievo e Alessandro Manzoni.

In quella che forse è stata la prima tesi di laurea su Bianciardi, a tre anni dalla morte, Ermenegildo Saglio raccolse da Carlo Cassola, che per un quinquennio aveva lavorato fianco a fianco con Bianciardi, un’intervista in cui osservò persuasivamente che quando Bianciardi metteva mano alla penna, lo faceva sempre per prendere una posizione critica verso costumi e condizioni del presente.
Non sorprende, dunque, che anche Carlo Varotti riproponga fin dal titolo del suo studio questa nota dominante: Luciano Bianciardi, la protesta dello stile (Carocci, pp. 307, euro 23). L’ampia monografia offre uno sguardo complessivo e ravvicinato dell’opera dello scrittore.

COME INDICA in modo trasparente lo stesso titolo, il fuoco dell’indagine è ricercare nelle caratteristiche dello stile bianciardiano, nel modus operandi della sua pagina – sia essa narrativa, giornalistica, manualistica o diaristica – lo spazio e l’azione della propria opposizione critica.

Per questa ragione, per esempio, dell’enorme mole traduttoria portata a termine da Bianciardi con la collaborazione della compagna Maria Jatosti, lo studioso spiega di far ricorso solo ad alcune opere che abbiano «lasciato tracce individuabili (fatte di temi o di modelli di stile) nei romanzi».
E sempre per questa ragione la stessa ricostruzione del contesto sociale, politico e culturale è da Varotti assunta come materiale convogliato nella pagina bianciardiana.

UNA SCELTA NETTA, una rotta che non manca di marcare la propria linea di confine anche attraverso la polemica aspra contro «il facile entusiasmo di chi ha voluto farne il testimone incorrotto e sventurato di una generazione e di una crisi epocale, l’acuto sociologo che ha capito per primo (anche questo capita di leggere) le dinamiche occultamente persuasive e pericolosamente omologanti del neocapitalismo».
L’indagine di Varotti, collocando Bianciardi tra gli autori del postmoderno, conduce a individuare nel parodismo, ossia nella ri-scrittura deformante, che si dispone in una ricchissima gamma di sfumature, dal grottesco al falsetto, dalle vesti della citazione dissimulata a quelle del falso candore, la cifra specifica dello stile bianciardiano e quindi della sua opposizione critica.

DIVERSAMENTE, la monografia di Elisabetta Francioni si presenta come studio di un periodo e di un’attività particolari: Luciano Bianciardi bibliotecario a Grosseto (1945-1954) (Associazione Italiana Biblioteche, pp.175, euro 30). Tuttavia, robustamente incardinato com’è su una minuta e sistematica ricerca d’archivio e sorretto dalla competenza dell’arte biblioteconomica, lo studio segna una tappa salda negli studi bianciardiani.

L’aderenza rigorosa alle fonti, il loro collegamento sicuro al contesto complessivo, nel mentre che sgombrano il terreno da tanti miti fasulli e falsi testimoni, approdano a una diversa e più convincente interpretazione dello scrittore.
L’argomentare pacato e sempre rigoroso di Francioni dimostra che la biblioteca comunale Chelliana, riportata in vita da Bianciardi dopo un’alluvione e i bombardamenti della seconda guerra mondiale, non solo non è stata per lui una sinecura, ma che vi ha intensamente lavorato per farne strumento di crescita culturale e civile a fianco delle classi subalterne grossetane, in collaborazione convinta, non acritica, con i partiti che li rappresentavano: i comunisti e i socialisti.

L’AMORE PER LO SBERLEFFO, per la sprezzatura ironica, propri dell’uomo e della sua pagina, erano la faccia esibita dell’infaticabile lavoro quotidiano, dell’impegno intellettuale e della tensione morale per costruire una città più civile e democratica, a partire dalle condizioni dei minatori e dei contadini.
Lo studio rende palese perché, ancora nella postfazione del 1964 al Lavoro culturale, l’autore scriva: «eppure Kansas City è una città tremendamente seria, e io ci torno ogni volta con un po’ di magone e parecchio rimorso».

LA RICOSTRUZIONE storica di Elisabetta Francioni contribuisce a chiarire che, per non fraintendere il profilo intellettuale e la voce di Bianciardi, è necessario non perder di vista la scissione tra la sua età di scrittore – dall’abbandono di Grosseto alla morte milanese, da Il lavoro culturale ad Aprire il fuoco – e quella della sua formazione sentimentale del periodo grossetano, il cui lascito più rilevante è la ricostruzione della biblioteca Chelliana e I minatori della Maremma redatti con Cassola l’opera più importante.

Di più: tutta la carica corrosiva fino all’iperbole, capace di mettere a nudo gli ottimismi sciocchi, i cinismi aggressivi, le disumanizzazioni nel dispiegarsi della società dei consumi, propri della sua narrativa maggiore, non avrebbe letteralmente potuto prender vita senza il contrappunto del periodo grossetano.
Contrappunto con gli anni semmai mitizzato e del tutto consentaneo con l’altro mito della sua infanzia, di suo padre e di nuovo prossimo alla cultura comunista: il Risorgimento mazzinian-garibaldino.